Sull’onda emotiva della rivolta dei Forconi il Governo ha convocato in fretta e furia due tavoli tecnici per la Sicilia il 30 gennaio scorso. Il primo dovrebbe, “nientedimeno”, dare attuazione dopo 65 anni al federalismo fiscale previsto dallo Statuto siciliano. Il secondo sarà invece dedicato alle problematiche settoriali delle categorie principali che hanno manifestato.
Tutto bene dunque? Manco per niente. Sul piano del metodo il
Governo Monti ha detto chiaramente che l’applicazione dello Statuto è subordinata ad una fonte di diritto di rango superiore: il rientro dal debito italiano. Ragionano così: per l’anno prossimo la Sicilia deve fare un sacrificio di un miliardo e mezzo, fra due anni saranno il doppio, fra tre anni il triplo, finché morte greca non sopraggiunga. Se, in questi saldi di bilancio “dettati” dall’Europa – come parimenti dettata dall’Europa è quella libertà di licenziamento che dovrebbe “far ripartire” l’Italia – c’è spazio per applicare lo Statuto, nulla in contrario, altrimenti nisba.
Nel frattempo, per realizzare questi tagli si scaricano a poco a poco funzioni statali sulla Regione e si trattengono, con le più varie scuse, le entrate. Insomma, quando sentite parlare del rischio di default della Regione in questi giorni è vero. O in alternativa di un bilancio “lacrime e sangue” (ma quante lacrime e quanto sangue vorranno mai questi vampiri per saziarsi? Nessuno lo sa). Ma – attenzione – le responsabilità dell’attuale Governo regionale, se ci sono, sono assolutamente trascurabili. Non prendetemi per sodale di chicchessia. Il fatto è che nessuno può gongolare da questa situazione, sia perché le conseguenze saranno devastanti, sia perché prenderebbe chiunque fosse seduto in questo momento a Palazzo d’Orléans. Abbiamo oggi un ragioniere generale con una caratura internazionale e questo mi rassicura sul fatto che il peggio sarà evitato (il “default” siciliano, prima di quello greco, avrebbe infatti conseguenze a catena imprevedibili) e anche l’Assessore all’Economia, checché se ne pensi politicamente, è persona assai preparata e che ha difeso con le unghie e coi denti le prerogative siciliane.
Ma potrebbe non bastare.
Però, ripeto, la colpa non è della Sicilia. Mi si chiedono sempre conti; adesso li presento (fonte 2009).
Lo Stato introita “formalmente” dalla Sicilia 22.157 milioni circa ogni anno di tributi erariali. In realtà, in questo conteggio ci sono pure i principali tributi che, grazie a ciò che resta dell’Autonomia della Sicilia, sono devoluti alla Regione. In pratica sono entrate fittizie dello Stato. Lo Stato in realtà incassa dalla Sicilia soltanto, si fa per dire, 13.710 milioni circa di tributi erariali a vario titolo. Attenzione! Questi non sono solo quei tre tributi che il 2° comma dell’art. 36 riservava orginariamente allo Stato, ma dentro c’è di tutto: dalle imposte di consumo (che a rigore sarebbero nostre, a differenza di quelle di produzione, a 3 miliardi e mezzo circa di IVA alle dogane, etc.). Insomma questo è ciò che prende lo Stato dalla Sicilia come principale voce delle entrate correnti.
Quanto dà invece per spese correnti (quelle in conto capitale incidono relativamente poco, e magari ne parliamo altra volta)?
Sempre il rendiconto del 2009 ci dà a prima lettura un numero spaventoso: 22.619 milioni circa l’anno! Ma, ad una lettura piú attenta si scopre che in questa gran cifra lo Stato conta come trasferimenti pure i tributi devoluti, cioè quelle imposte (Irpef, Ires, Iva,…) che sostanzialmente sono tributi propri della Regione e che sono incassati nella Regione. Per dirla facile, se la Sicilia fosse uno Stato indipendente, quei soldi, riscossi in Sicilia, sarebbero comunque nostri, non “donati” dall’Italia. Tolti questi restano 14.172 milioni circa di spese statali in Sicilia. In pratica, rispetto ai quasi 13 miliardi di incassi erariali, il residuo fiscale si riduce a ben misera cosa, soprattutto se si pensa alla capacità fiscale della Sicilia, ben lontana da quella nazionale.
Ma il dato, letto ancor più attentamente, nasconde alcune altre sorprese. In questi 14 miliardi e poco più di spese statali in Sicilia sono contabilizzati anche 306 milioni circa di trasferimenti dallo Stato ad altre amministrazioni centrali (ad esempio l’INPS), calcolati come “quota pro capite” da attribuire ai Siciliani. È evidente però che il passaggio di denaro dallo Stato ad un’amministrazione centrale dello Stato è in sostanza una partita di giro, una posta puramente contabile, stante che quel che per lo Stato è un’uscita, per un altro ente statale è un’entrata. E così pure scopriamo che in quella somma ci sono anche circa 452 milioni circa di “imposte pagate sulla produzione”, che, se per le amministrazioni statali sono uscita, per lo Stato comunque sono entrate.
Depurando il dato da queste pure partite di giro si determina la spesa statale effettiva in non più di 13.414 milioni circa l’anno, cioè già DI MENO DELLE ENTRATE ERARIALI RISCOSSE IN SICILIA!
Ma le cattive sorprese non finiscono qui.
Se lo Stato attuasse integralmente il federalismo fiscale dovrebbe dare su quei 13 miliardi e settecento milioni circa di incassi erariali una compartecipazione alla Sicilia pari al costo delle funzioni trasferite. La Sicilia dovrebbe farsi carico di tantissime cose, ancora non trasferite alla Regione: circa 2 miliardi e 200 di spesa sanitaria, circa un miliardo e settecento di trasferimenti agli enti locali, circa 725 milioni di spese per carceri e giustizia, circa 872 milioni per interni e polizia, circa 3 miliardi e 388 milioni per le scuole, poco meno di 600 milioni per l’università, circa 500 milioni per le agenzie delle entrate e l’amministrazione finanziaria e così via.
La Sicilia non potrebbe invece farsi carico delle funzioni politiche dello Stato: quota parte degli organismi centrali, interessi sul debito pubblico statale, difesa ed esteri. Ora, sapete quanto spende lo Stato per queste funzioni indelegabili alla Sicilia? Pochissimo, meno di un miliardo e 800 milioni l’anno. Si potrebbe ribaltare il computo e dire allo Stato che la Sicilia trattiene tutti i tributi riscossi in Sicilia e lascia allo Stato quel miliardo e 800 milioni l’anno che ci consentono di essere cittadini italiani.
Ebbene, andando a vedere più approfonditamente cosa c’è dentro queste spese correnti, si scopre che il costo della partecipazione all’Italia, peraltro sostenibilissimo con i numeri che abbiamo dato, è fatto in gran parte di spese che con la Sicilia non hanno nulla a che spartire: il costo delle amministrazioni centrali (il Parlamento, il Quirinale, l’alta burocrazia statale) e degli esteri è trascurabile. La “botta” viene dalla Difesa, per la quale pare che l’Italia spenda per la Sicilia più di un miliardo l’anno. Ma, attenzione, non per difendere la Sicilia con le caserme siciliane, ma solo per ripartire, anche sulla Sicilia, il costo delle onerosissime operazioni di “pace” che l’Italia intrattiene nel mondo. Insomma in quel miliardo di “obolo” che dovremmo pagare per sentirci italiani, c’è pure l’Afghanistan per intenderci. L’altra voce di rilievo è quella di circa mezzo miliardo di interessi sul debito pubblico. Ma, mi chiedo, se la Sicilia si fa carico del 95/99 % delle spese statali in Sicilia, che senso ha, almeno a regime, che partecipi al pagamento di un debito contratto per spese di cui non ha beneficiato se non per l’1/5 %? Mistero. A regime a noi di quegli interessi non dovrebbe interessare nulla. E invece li dobbiamo pagare, per continuare a dirci italiani. Pazienza.
Ricapitoliamo. Lo Stato incassa 13 miliardi e settecento milioni di imposte erariali. Se se ne trattiene un miliardo e sette, considerando la nostra povertà, si può ragionevolmente dire che si sta pagando le spese comuni e per il resto, con i tributi erariali, paghiamo tutti i trasferimenti agli enti locali, la sanità, e le funzioni che oggi lo Stato eroga direttamente ai siciliani (polizia, giustizia, scuola, università, fisco) e stiamo in pace. Magari stando un po’ attenti sulle “nostre” spese correnti e limando, poco a poco, la piaga storica del precariato.
Ma in questo conto non ho ancora computato, rigorosamente, il mancato gettito dell’art. 37. Se la Sicilia costituisce un ordinamento tributario autonomo, con possibilità di manovrare i propri tributi (pagato l’obolo di cui sopra allo Stato), perché mai i presupposti d’imposta maturati nel nostro territorio, nei nostri confini, nelle nostre acque territoriali, devono andare allo Stato? Sarebbe un regalo inutile del più povero al più ricco. Anche quelle risorse, in ipotesi di scuola di piena indipendenza, sarebbero nostre (o piú semplicemente nell’ipotesi di applicazione rigorosa dell’art. 37). Ma, a quanto ammontano? Nessuno lo sa. Io ritengo che non possano essere inferiori agli 8 miliardi di euro circa l’anno; lo Stato minimizza, dicendo che si tratta di una robetta da 100 milioni l’anno. Tanto meglio, se è così poco, per darcela, e invece…
Con queste risorse, che sono NOSTRE, non finirò mai di ripeterlo, la Sicilia potrebbe di colpo riportare l’IVA al 20 %, abolire l’IMU, portare la benzina a 1 euro al litro e far conoscere alla nostra Isola un boom di occupazione, investimenti, consumi e finanche esportazioni, da far impallidire l’Argentina di oggi.
Chi pagherebbe? L’Italia, che dovrebbe “stringersi” di qualche miliardo l’anno. Ma non nel senso che ci manda soldi, ma nel senso che smette di dissanguarci, come invece fa da… sempre.
I termini finanziari del problema sono tutti là. E si capisce benissimo perché il governo dei banchieri non intende minimamente sottrarci al nostro destino. Siamo un paese in surplus energetico? E che importa? La condizione di schiavitú cui sono condannati tutti i popoli europei mediterranei (e non solo) non si può saltare, anche per evitare brutti esempi. Non avremmo bisogno di privatizzare le utilities, né di schiavizzare i lavoratori. Ma cosa credono di essere questi siciliani? Norvegesi?
E quindi non succederà nulla. Il Popolo disinformato non reagirà. O esploderà in rabbie convulse e acefale, facilmente dominabili. Nessuno farà mettere l’Italia in ginocchio per vedere riconosciuti i diritti della Sicilia. La Regione sarà commissariata. L’Autonomia annullata, con giubilo degli intellettuali venduti, e dei sindacati e partiti collaborazionisti di questo sistema di sfruttamento. E per la Sicilia non ci sarà alcuna alternativa all’abbraccio mortale di questo Stato e di questa Europa di strozzini e loro manutengoli (con qualche complicità locale, ma non è questo ciò che importa).
MASSIMO COSTA
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