mercoledì 30 settembre 2009

TRATTAMENTO FATTO ALLA SICILIA IN OTTANTA ANNI DI UNITÀ ITALIANA di Antonio Canepa

da “La Sicilia ai Siciliani!” (1944, firmato con lo pseudonimo di “Mario Turri” )



La Sicilia non si era mossa, nel 1860. O, se si mosse, dove si mosse, non fu certo nel senso unitario voluto dai piemontesi. Fu per proclamare una Sicilia indipendente, repubblicana, nella quale la povera gente potesse vivere in pace senza essere sfruttata da nessuno.
Ma questi movimenti non potevano piacere. E così, prima ancora che terminasse il 1860, Bixio, mandato da Garibaldi, dovette correre a Bronte e in molti altri paesi, con truppe non siciliane, per domare la vera, autentica rivoluzione siciliana che incominciava.
A Bronte fece fucilare cinque persone. Altrove, di più. Impose taglie e multe alla popolazione, che cercò di atterrire in tutti i modi. “Missione maledetta (confessò più tardi lo stesso Bixio) alla quale un uomo della mia natura non dovrebbe mai essere mandato!”.
Poi gli italiani scesero in Sicilia. Luogotenenti, Commissari civili, stati d’assedio e altre misure eccezionali imperversarono in Sicilia a partire dall’unificazione.
Il primo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia nel 1862; ed esso, come disse Crispi, lasciò terribili tracce.
Nell’anno seguente, si ebbe di fatto il secondo stato d’assedio con la missione del generale Govone il quale apertamente violò le leggi dello Stato.
Sotto il generale Govone, per combattere i renitenti alla leva, i Comuni siciliani venivano cinti da cordoni militari o presi addirittura d’assalto; senza mandato di cattura venivano arrestati sindaci e consiglieri comunali; venivano presi ostaggi, comprese le donne incinte, una delle quali (Benedetta Rini, di Alcamo), quasi al termine della gravidanza, morì in carcere dopo quattro giorni di convulsioni. Fu persino applicata la pena dell’acqua!
E quanti innocenti furono martoriati! Un disgraziato operaio, Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, venne sottoposto alla tortura nell’Ospedale Militare di Palermo, come se fingesse d’esser muto e sordo per sottrarsi al servizio militare: sul suo cadavere si poterono contare 154 bruciature fatte col ferro rovente!
Tutti questi sono fatti. Fatti documentati. Basta sfogliare il libro di Zingali: “ Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia”, volume primo, da pagina 232 in poi: ci troverete questo ed altro! E non è un separatista che scrive, badate, ma un fascista il quale è stato persino segretario federale!
Nel 1866 la pazienza finì. Il popolo di Palermo si ribellò come un solo uomo.
“Una masnada di ladroni ha governato per sei dolorosissimi anni la patria nostra. Una masnada di uomini feroci l’ha insanguinata”: così incominciava il proclama rivoluzionario del 1866.
Nella città e nella provincia di Palermo, la rivoluzione assunse, dal 16 al 22 settembre, proporzioni tali, da costringere il governo ad inviarvi sollecitamente, con la qualità di Regio Commissario, il generale Raffaele Cadorna, alla testa di due divisioni di fanteria, un reggimento di cavalleria ed una brigata di artiglieria.
E vinsero loro, i ladri e gli assassini del popolo. Fucilarono senza processo migliaia di cittadini. Mentre invece gli insorti siciliani, che avevano preso prigionieri duemila soldati, non avevano ad essi toccato un capello.
“Repressa la rivolta e ristabilito l’ordine, le cose continuarono come prima. Non una legge fu votata, non un provvedimento fu preso per portare qualche rimedio ai mali esistenti, che andavano continuamente aggravandosi”. Sapete chi scrive queste parole? Non un separatista; ma dei bravi fascisti, unitari, Libertini e Paladino, a pagina 752 della loro “ Storia di Sicilia” pubblicata appena dieci anni fa.
Nel 1875 le cose continuavano a peggiorare. Il governo italiano propose misure eccezionali di polizia contro la Sicilia. I deputati siciliani insorsero. Ascoltate quel che disse Paolo Paternostro:
“Voi parlate delle condizioni eccezionali in cui si trova la Sicilia, del malcontento che vi regna. Ma, domando io, voi che cosa avete fatto per la Sicilia? Cosa ha fatto il governo? Nulla. O tutto il contrario di quel che doveva.
Se voi date un’occhiata a tutti i servizi della Sicilia, a tutte le amministrazioni, voi troverete che dappertutto, e sempre, il governo si è condotto male.
Sceglierò qualche esempio.
Sapete voi come è stata trattata la magistratura in Sicilia?
Quando ci sono stati i pretori che non hanno voluto secondare gli ordini dell’autorità politica, sono stati minacciati, talvolta traslocati.
E dei nostri impiegati (altro esempio) che cosa ne avete fatto? Ve lo dirò in due parole.
Quando voi spedite in Sicilia qualcuno, voi fate supporre che lo mandate per castigo, come se lo mandate in esilio, e gli dite: – Andate laggiù, andate in Sicilia; poi, se vi comporterete bene, se sarete zelante, allora provvederemo.
Questi signori vanno laggiù coll’idea di trovarsi in mezzo a gente che non valga la pena di dover rispettare come tutto il resto d’Italia; e fanno dello zelo eccessivo; e diventano spesso agenti provocatori; ed accrescono il malcontento.
E dei nostri impiegati di laggiù, degli impiegati siciliani, che cosa ne avete fatto? dei piccoli impiegati, soprattutto?
Perché a un vostro prefetto è saltato in capo di fare un rapporto più o meno insolente e offensivo per la Sicilia, voi credete sul serio che molti disordini si debbano alla così detta mafia, che si sarebbe infiltrata tra gli impiegati, e ... botte da orbo, traslocazioni, sbalzando gente con uno stipendio di fame in lontani paesi, senza neanche indennità di viaggio, spostando e rovinando tutti i loro interessi.
Che ne avete fatto delle nostre ferrovie? E delle nostre strade obbligatorie? E dei beni dei Gesuiti e dei Liguorini, che erano destinati alla pubblica istruzione?
Nelle nostre amministrazioni non c’è che il disordine, il caos. E le popolazioni si abituano a pensare e a dire: – Ma questo non è un governo; le imposte se le fanno pagare; il fiscalismo ci perseguita sotto tutte le forme, ci assedia e ci tortura; ma quando si tratta di amministrare, amministrazione non ce n’è.

Che cosa si fa? Si ricorre a mezzi eccezionali di polizia, si ricorre al governo militare, invece di migliorare economicamente il paese!”.
Ecco quel che gridò in Parlamento il deputato siciliano Paolo Paternostro. Le sue parole sembrano scritte oggi. E tutti noi siciliani, oggi, potremmo gridarle al governo fascista. Ma del governo fascista parleremo tra poco.
Dopo Paternostro parlò, nello stesso senso, Colonna di Cesarò. Poi Diego Tajani. Quest’uomo, patriota, esule e volontario delle guerre d’indipendenza, era stato dopo il 1860 Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Palermo. E poiché era un uomo onesto e senza paura, aveva sentito il dovere di spiccare mandato di cattura contro il questore di Palermo, e di mettere sotto processo il prefetto di Palermo, colpevoli ambedue di abominevoli abusi. Il governo, naturalmente, si era messo contro di lui. Egli aveva dato subito le dimissioni chiudendosi in uno sdegnoso silenzio.
Eletto deputato, fu più tardi per due volte Ministro di Grazia e Giustizia. Orbene, quando vide che la Sicilia veniva nuovamente provocata e calunniata, Diego Tajani non seppe più tacere.
Per due giorni, innanzi al Parlamento esterrefatto, espose l’una dopo l’altra tutte le ingiustizie, le canagliate, le infamie di cui il governo italiano si era macchiato: stupenda requisitoria che tutti i siciliani dovrebbero imparare a memoria!
Concluse con questo avvertimento solenne: Ricordatevi che la Sicilia è un’isola, e le isole si considerano come qualcosa di distaccato, di autonomo!
Parole sprecate! La legge contro la Sicilia fu approvata. E nuove violenze si abbatterono sulla nostra disgraziata patria.
La Sicilia è stata sempre considerata come terra nemica, terra conquistata, da conservare con la forza. Per questo motivo, nel 1875, si tenevano in Sicilia ventitré battaglioni di fanteria e bersaglieri; due squadroni di cavalleria; quattro plotoni di bersaglieri montati; 3.130 carabinieri e numerose altre forze sussidiarie, fra le quali principalmente guardie di pubblica sicurezza e guardie a cavallo!
Si giunse così ai Fasci siciliani dei lavoratori, fondati e diretti da Giuseppe De Felice. Che cosa voleva la Sicilia nel 1893 – 94? Quel che ha sempre voluto: giustizia e libertà.
Il governo presieduto da Giolitti, riversò nell’isola una moltitudine di soldati, i quali non fecero che accrescere il malumore nel popolo.
L’inevitabile accadde: sul principio del 1893, uno scontro ebbe luogo a Caltavuturo tra la folla e la truppa. La truppa osò sparare sui pacifici paesani, un gran numero dei quali rimasero uccisi.
Promise Giolitti di far aprire un’inchiesta contro i militari che avevano fatto fuoco; ma non mantenne. Al contrario, durante l’intero anno, lasciò che la polizia e l’esercito si abbandonassero a tutti gli eccessi: nelle giornate di dicembre, che furono particolarmente accanite, più di 200 siciliani vennero uccisi, mentre la forza pubblica ebbe un solo morto.
Vedendosi assassinati, i siciliani insorsero dappertutto.
Ruppero fili telegrafici; incendiarono municipi, preture, esattorie, uffici del registro e del catasto, agenzie delle imposte, archivi notarili, casotti daziari; liberarono i carcerati; tentarono di disarmare carabinieri e soldati.
A questo punto, il Re concepì la mostruosa idea di affidare a un siciliano la repressione del movimento siciliano. Crispi accettò la parte di Caino.
Proclamò lo stato d’assedio; e nominò commissario straordinario con pieni poteri il generale Morra Di Lavriano, che pochi giorni prima aveva mandato a Palermo come prefetto.
Venne richiamata alle armi la classe del 1869; e più di 40.000 uomini vennero sbarcati in Sicilia. I capi del movimento furono gettati in carcere: e primo fra tutti De Felice che, essendo deputato, non poteva neppure essere arrestato senza l’autorizzazione della Camera. I Fasci siciliani dei lavoratori (che erano ormai 166 con 300.000 associati) furono sciolti e le loro sedi occupate militarmente. Proibiti gli assembramenti e le riunioni. Istituita la censura.
Per più di sette mesi la Sicilia fu sottoposta alla legge marziale. Gli arresti si facevano senza bisogno di prove. E le condanne venivano appioppate, il più delle volte, senza che gli accusati potessero neppure difendersi.
Le accuse, del tutto immaginarie. “Avere cooperato alla emancipazione materiale e morale dei lavoratori” era un reato severamente represso!
Nel giugno 1894, più di 1800 siciliani erano stati già condannati al domicilio coatto. Molti, a pene più gravi. De Felice a 18 anni di carcere, Bosco, Barbato e Verro a 12 anni.
Alla Camera dei Deputati, Felice Cavallotti dichiarò che il governo aveva violato le leggi e lo stesso Statuto. Poi prese la parola Matteo Renato Imbriani:
“Voi (disse rivolto a Crispi) avete stracciato ad una ad una tutte le pagine dello Statuto. Avete fatto scempio di tutte le nostre libertà…
Ci sono molti che dicono: – I Borboni bombardavano. – Ma bombardavano quando una città era in piena ribellione. Ma i Borboni non hanno mai fatto tirare sopra folle inermi ed affamate…”.
La Sicilia elesse deputati De Felice, Bosco e Barbato, che languivano in carcere. L’elezione, si capisce, venne annullata.
Così continuarono le cose, male sempre, fino alla guerra. Dal 1915 al 1918 anche e soprattutto in Sicilia i contadini e gli artigiani, i professionisti e gli studenti vennero strappati dalle loro case e mandati al macello.
Ma quando la guerra finì, chiedemmo la resa dei conti. E l’avremmo ottenuta, per Dio! se questo miserabile governo fascista non avesse rinnovato un sistema di poliziesca tirannide sopprimendo le ultime libertà e raddoppiando le nostre catene.



ANTONIO CANEPA (MARIO TURRI)

A LA ME' TERRA

‘Na gran puitissa è la me’ terra
ca scrissi la storia supra petri e casteddi
ma puru siddu havi li carni sfardati
l’ossa camuluti, la testa ‘nfasciata
sapi ancora cantari cu l’unni di lu mari
la carizza di lu ventu lu duluri di la genti!

N’agugghia d’oru cu la punta fina
ca supra la ‘nfamità, li guerri, li ruini
sapi ancora arripizzari pirtusa
arraccamari cu la sita di li ciura
l’azzolu di celu e l’annacata di li varchi
sutta lu sciddicusu villutu di la notti!

Riggina tra li riggini è la me’ terra
vistuta d’innacu, oru e gialla e russa
la bannera sutta un cappeddu di lustru
di luna, arraccamatu cu stiddi d’argentu
dintra ‘na reggia cu jardini e funtani
ma senza cumannu nè senza curuna!

Aceddu ‘nchiusu dintra ‘na gaggia
chi canta pri stizza o pri raggia cu vuci
di rusignolu ‘zemmula a pecuri lupi liuna
arrialannu putìri a cu’ dignu nun è
facennu addivintari miraggiu
lu pani l’aria, lu curaggiu e la libirtà…

Ma comu cinìsi assittati supra la riva
d’un ciumi, puru nuàutri siciliani
cu la spiranza ca nni vuncia lu pettu
e vuci mai stanchi comu l’unni
di lu mari… aspittamu ca junci lu tempu
di ‘na Sicilia lìbbira, sana e ‘ndipinnenti!

23 maggio 1980 R.C. 29 settembre 2009

martedì 29 settembre 2009

VOGLIAMO LA SICILIA LIBERA E INDIPENDENTE di Antonio Canepa

da “La Sicilia ai Siciliani!” (1944, firmato con lo pseudonimo di “Mario Turri”)

Rileggiamo insieme le immortali pagine del “Catechismo Siciliano” scritto dal nostro grande Michele Amari:

Perché i siciliani vogliono essere indipendenti?
“Perché la ragione e la storia ci insegnano che tali debbono essere e che tali sono stati da molti secoli.
Come, per legge umana e divina, nessun uomo può legittimamente essere schiavo di un altro (né può mai prosperare qualora lo diventasse) così nessuna nazione può essere serva di un’altra; e, se lo fosse, verrebbe avvilita, governata senza giustizia né umanità, aggravata dai dazi per l’utile non proprio, ma dei suoi padroni, straziata da leggi fatte a questo medesimo scopo, quindi sarebbe sempre povera, ignorante e disprezzata.
Ma come dimostrate che la Sicilia abbia una individualità a sé?
Iddio le stese d’ogni intorno i mari per separarla da tutt’altra terra e difenderla dai suoi nemici. La fece così grande di estensione, temperata di clima, fertile di suolo, da bastare non soltanto alla vita di più milioni di uomini, ma anche ai comodi, al lusso, ad ogni godimento, ad ogni industria, ad ogni commercio.
Ma come rispondete a quelli che oppongono che, essendo mutate le circostanze politiche d’Europa, per la fusione dei piccoli nei grandi Stati, la Sicilia non potrebbe più sostenersi da sé?
In primo luogo è da considerare che la Sicilia, per la sua grandezza e per la natura montuosa del territorio e per la fierezza degli abitanti, non è un’isola facile a conquistare.
Secondo: è un fatto, in politica, che gli Stati piccoli si mantengono per la gelosia reciproca dei grandi, nessuno dei quali permetterebbe a un altro di ingrandirsi con la conquista a spese dei piccoli Stati. Diversamente non esisterebbe la libera Svizzera che ha meno di due milioni di abitanti; né la libera Grecia che ne ha solo un milione: mentre la Sicilia ne ha più di due milioni! Se la perfezione politica di uno Stato consistesse nella grandezza, la Russia e la Cina sarebbero gli Stati più felici del mondo!”.
Così scriveva, più di un secolo fa, Michele Amari. Oggi, queste parole sono doppiamente vere. Oggi la Sicilia ha quattro milioni di abitanti, pronti e decisi a vendicare le antiche e le recenti offese, pronti e decisi a ottenere l’indipendenza dal resto d’Italia.
Non si può più continuare come per il passato. Per noi siciliani, è questione di vita o di morte. Separarci o morire!
Sonnino, che non era né separatista né siciliano, ma che fu anzi più volte Ministro e due volte Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, ha scritto queste sacrosante parole:
“Quel che trovammo nel 1860 dura ancora. La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari; e ce l’assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione e l’immensa ricchezza delle sue risorse. Ma noi italiani delle altre province impediamo che tutto ciò avvenga; abbiamo legalizzato l’oppressione esistente; ed assicuriamo l’impunità all’oppressione!”
Se questo poteva scrivere Sonnino, quanto più terribile e amara è la verità! Noi siciliani siamo stati considerati sempre come la feccia dell’umanità, buoni soltanto a pulire gli stivali dei signori venuti dal continente!
E non si creda che domani, con un regime migliore, più liberale, più umano, possano accomodarsi i nostri guai! Credere ciò sarebbe un gravissimo errore.
Innanzitutto, nessun governo, per generoso che sia, ci restituirà mai (se non costrettovi dalla forza) quel che ci è stato rubato in ottanta anni. E se pure ne avesse l’intenzione, verrebbe cacciato via dagli stessi italiani prima di compiere quest’atto di giustizia e di riparazione.
In secondo luogo, l’incomprensione tra la Sicilia e il continente non deriva dalla cattiva volontà degli uomini. Deriva dalla situazione, per cui sono state unite regioni che dovevano stare separate. Deriva dal contrasto degli interessi.
L’industria siciliana danneggerebbe l’industria continentale: questo è certo. La nostra floridezza andrebbe a tutto scapito della floridezza dei nostri sfruttatori.
Perciò la Sicilia non può e non potrà mai vivere d’accordo col continente italiano.
Soltanto degli ingenui possono sperare in un avvenire migliore, pur persistendo nell’unione con l’Italia. E si illudono che forse qualche siciliano potrebbe andare al governo d’Italia…
Sciagurati! Quante volte i siciliani sono andati al governo, da Crispi a Orlando, che bene ne ha veduto mai la Sicilia?
Giuseppe Santoro, nel citato volume a cura di Castelnuovo, ha scritto queste giuste parole: “La circostanza più grave è che la Sicilia è stata maggiormente trascurata da quegli stessi suoi figli che pervennero ai più alti fastigi del potere e del sapere”.
Perché? – mi chiedete. Ma per una ragione evidentissima!
Il continente è molto più forte della Sicilia. Quindi il governo viene nominato o mandato a casa dal continente. Ora, come potete immaginare che il continente chiami al governo uno che anteponga la Sicilia al continente?

ANTONIO CANEPA (MARIO TURRI)

La rabbia non mi fa dormire più la notte...

Sono di Palermo, ho 58 anni, mi chiamo CAMMARATA Vincenzo, ho deciso di presentare richiesta di cambiamento del cognome poiché non sono più disposto a portare lo stesso cognome del Sindaco in quanto lo ritengo lesivo della mia dignità, non posso portare lo stesso cognome del Sindaco di Palermo dopo i recenti fatti... barca e aumento immorale dell'aliquota addizionale comunale Irpef.

La rabbia non mi fa dormire più la notte, la rabbia che cresce a dismisura dentro il mio petto e infiamma le viscere e la mente.

La rabbia nel constatare che non si riesce ad andare oltre le proteste ironiche eccetera (vedi Piazza Pretoria, ore 11,00, sabato 26.9.09), che nulla possono per cambiare realmente lo stato di cose.

La rabbia di vedere la mia vita che sta giungendo alla fine e che a Palermo non è cambiato niente da quando ero ragazzino (Sciascia docet).

La rabbia per me è l’unico stato d'animo che non ho mai saputo gestire e governare e vi assicuro che annienta.

La rabbia che nasce da questa terribile sensazione di impotenza totale a cambiare le cose, ad impedire minimamente le ingiustizie che quotidianamente o quasi siamo costretti a subire (aumento addizionale comunale Irpef, che serve per pagare i soldi sperperati dall’Amministrazione comunale (i fatti sono noti e sotto gli occhi di tutti).

La rabbia nel constatare che i miei concittadini non partecipano mai alle vicende politiche che pur li riguardano da vicino.

La rabbia di sapere che non posso impugnare una Cal 9 x 21 e finalmente fare piazza pulita... (omissis) a mali estremi... ma non è nella mia natura.

Il signor Sindaco non lo sa, ma con le sue azioni ha sporcato ed infangato la memoria di mio padre Cammarata Francesco che mi ha insegnato attraverso il suo esempio di vita più che con le parole, il valore inestimabile dell'Onestà, della Lealtà, della Dignità umana e del coraggio. Mi ha insegnato ad aborrire tutte le guerre ed a detestare la mafia.

Ricordo, io ragazzino, che un giorno ed in tempi non sospetti, passeggiavamo in via Libertà a Palermo, mio padre vide venirgli incontro l'allora futuro sindaco di Palermo Vito Ciancimino - si conoscevano in quanto compaesani nati entrambi a Corleone - ed invece di ricambiare il caloroso saluto rivoltogli dall'assessore Ciancimino lo apostrofò con toni durissimi dandogli del "Pulcinella", poi gli disse: Sei solo un Buffone, sei un uomo senza onore, un burattino in mano ai mafiosi, stai rovinando la città di Palermo - erano i tempi del famoso sacco di Palermo e credo prima della strage di viale Lazio.

Quando uccisero Il generale Dalla Chiesa e vidi le immagini in televisione ricordo che piansi pensando a papà che già non c'era più, perché incarnava la figura di mio padre, anche lui un militare onesto.

Piansi di rabbia perché non si erano potuti difendere sotto i colpi vigliacchi dei mitragliatori, piansi di pena per la moglie giovane ed innocente, piansi per la vergogna di essere palermitano.

Questo mio inutile pianto negli anni di continui massacri mafiosi si è trasformato in quella rabbia impotente.

Io non dimentico...

Se penso al Dr. Borsellino o al Dr. Falcone ed ai tanti caduti di mafia la rabbia è ancora tutta viva e forte e presente ed agita il mio cuore e brucia.

E tutti questi morti non sono morti ieri o l'altro ieri, ma adesso!

Continuano ad essere uccisi adesso, adesso!

Mi capite????!!!!!

Non voglio aggiungere altro.

Vincenzo Cammarata

http://www.dongiorgio.it/principale.php?id=233

lunedì 28 settembre 2009

GALA’ EQUESTRE “Cavalli sotto le stelle”

GALA’ EQUESTRE “Cavalli sotto le stelle”
SAN FRATELLO Messina 03/10/2009

Dopo l’ampio successo di pubblico e di critica riscontrato nelle precedenti edizioni , il suggestivo Comune di San Fratello provincia di Messina, con la sua storia, la cultura, la musica, sarà lo scenario del Gala’ equestre “Cavalli sotto le stelle”, una manifestazione diventata nel tempo un elemento prezioso della Sicilianità e storia della nostra terra e che rappresenta la nascita ed il codice genetico dei “ I Gattopardi Sicilia” che ho l’onore di presiedere..Cavalli sotto le stelle, unica nel suo genere è diventata negli anni un punto di riferimento nel panorama Regionale per l’addestramento ed il debutto del binomio nell’arte equestre. La manifestazione ideata dalla nostra associazione, si terrà la sera del 03 ottobre 2009, alle ore 19:30 nel campo sportivo del comune di San Fratello , con uno strepitoso Gala’ di cavalli ed abili cavalieri , seguiti del coordinatore regionale Giovanni Palazzotto e il capo gruppo Giovanni Accardo . L’edizione di quest’anno vedrà protagonisti , cavalli, cavalieri e dame, in un tutt’uno d’eleganza, femminilità e simbiosi, allo scopo di valorizzare la nostra terra, i nostri costumi e l’antica dignità equestre Siciliana che ci ha contraddistinto in un contesto europeo. Tutto ciò, creerà un’atmosfera tutta speciale e regalerà una serata magica ed una grande emozione a quanti vedranno nel cavallo e nella sua storia millenaria un animale, misterioso ed unico. Allora , è giunto il momento di emozionarvi entrando nell’atmosfera incantata del più straordinario ed unico evento regionale dove saranno protagonisti i migliori maestri equestri Siciliani e l’associazione di Alta Scuola Spagnola in Italia .Una cavalcata attraverso la storia, percorrendo miti, leggende e fasti di un rapporto infinito di amore, collaborazione e fiducia, fin dal primo giorno in cui l’uomo è salito sul suo cavallo per domarlo. Un proverbio arabo dice: “Il cavallo è un dono di Dio agli uomini” e Noi il 03/ottobre/ 2009, lo offriremo a Voi!



Programma del Gala’ 2009




Ore 19.30 Campo sportivo: Presentazione del Gala’ Equestre a cura dei Gattopardi.
Apertura spettacolo: Dalla libertà alla doma.
Passerella Razze Equine allevate in Sicilia.
Saggio Equestre di Scuola: Il Maneggio incantato.
Fuego Sivigliano.
Il cavallo nel west..
Arte equestre rinascimentale i Cavalieri della stella
Il cavallo, l’arte, la musica e la danza.
Il vento del deserto
Chiusura spettacolo: Il cavallo in liberta.


Per ulteriori informazioni relative alla manifestazione consultate il sito: www.igattopardi.it


Dott. Vincenzo Allegra
Presidente dei Gattopardi Sicilia

domenica 27 settembre 2009

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (7a parte)

Mis, Americani e Mafia


Onorevole Gallo, le ho lasciato finora la parola in considerazione del fatto che lei non parla da trent’anni. Ora però è venuto il momento delle domande. Chi finanziò realmente il Mis?

«Nessuno, mi creda. Sull’indipendentismo siciliano sono state dette, tra le altre cose, due grosse infamità: che fosse stato finanziato dagli americani e che gli indipendentisti siciliani operassero per fare diventare la Sicilia la “quarantanovesima stella degli Stati Uniti”. Due infamità.
Nessuno ci diede un soldo. Armi ed equipaggiamenti venivano acquistati con i nostri mezzi. Io per esempio, per mantenere l’Evis sui Piani della Fiera, nei pressi di Caltagirone, vendevo l’olio che si produceva in una proprietà di mia moglie. Subito dopo la battaglia del 29 dicembre 1945, nella proprietà di mia moglie a San Mauro, le forze armate di polizia trovarono venticinque quintali di olio e se lo portarono via. Nessuno ne seppe mai niente.

Quanto al “Movimento per la quarantanovesima stella degli Stati Uniti”, quello fu qualcosa di diverso dal Mis. Fu un organismo creato da due tizi che ebbero persino la spudoratezza di presentarsi al nostro primo congresso di Taormina e che vennero letteralmente buttati fuori. Tra l’altro uno di questi due era un tipo abbastanza originale. Tanto per dirne una, teneva comizi per tutti i partiti. Bastava che lo pagassero e lui parlava in piazza. Non importa per chi. Questa della quarantanovesima stella fu un’infamità sulla quale giocò molto, successivamente, il governo centrale e soprattutto Scelba, ministro degli Interni, per screditarci agli occhi dei siciliani».

Però, onorevole, il Movimento ebbe l’appoggio degli alleati. E dell’America in particolare. Ci furono accordi in questo senso, che lei sappia?

«Io non so se ci siano stati accordi. So che se ci fossero stati accordi Andrea Finocchiaro Aprile me lo avrebbe detto: allora o più tardi. Ho riferito l’episodio di Palermo con l’uomo dell’Intelligence Service ho raccontato come uscii da Catania vestito da commodoro americano in una macchina americana accanto all’ammiraglio. Quello che posso supporre è questo. Ed è ovvio: per avere una base popolare in Sicilia durante lo sbarco, gli americani solleticarono la vanità dei siciliani lasciando intendere, anche con i fatti, tipo referendum, che un giorno gli Usa avrebbero potuto operare per l’indipendenza della Sicilia. Atteggiamento che continuarono a tenere anche dopo la conquista dell’Italia del Nord. Quando a Yalta si spartirono il mondo e quando il governo italiano li rassicurò della sua fedeltà all’Occidente, allora mollarono ogni cosa. E così che gli americani si ritirarono e ci lasciarono al nostro destino».

Ma la mafia, onorevole, la mafia vi appoggiò?

«Anche sul ruolo della mafia si è sempre detto molto a sproposito. Dopo il fascismo, riprese in Sicilia la vita politica. E la vita politica siciliana era, come si può capire, in gran parte impregnata di mafia. Era così con Vittorio Emanuele Orlando ed è stato così anche dopo. La mafia, dunque, mortificata dal fascismo, ricomparve con la liberazione. I capi mafiosi si guardano attorno e capirono che in quel momento c’era un solo partito vincente: il Mis. Il Mis aveva le simpatie della popolazione; le simpatie degli alleati; molte probabilità di conquistare il potere. Ecco perché la mafia, con in testa Calò Vizzini, entrò in massa nel Mis. Calogero Vizzini andava addirittura in giro con la Trinacria all’occhiello anche dopo la fine del Mis per farsi passare come perseguitato politico. Ma la mafia, che cominciava ad avere i suoi collegamenti con il Nord, capì subito che il Mis non aveva alcuna prospettiva a lunga scadenza. E quando all’inizio del 1946 si profilò il referendum istituzionale, la mafia era in gran parte fuori dal Mis. Si era ormai piazzata in un certo partito, in alcuni partiti, ma in particolare, dove sapeva di avere molte probabilità di vittoria. Ormai, infatti, erano arrivati gli alti commissari; era arrivato il potere insieme con il quale la mafia avrebbe potuto operare.

Oggi dico questo: che nel secondo periodo dell’Evis la mafia contrastò anziché favorire il separatismo. E non per una questione ideale, per un motivo tattico-strategico. La mafia aveva forti agganci con tutte le bande armate che operavano sulle montagne siciliane. È chiaro che tutti i sequestri, i furti e le rapine avvenivano in Sicilia sotto il manto protettore della mafia. Ma quando gli uomini dell’Evis salirono sulle montagne, briganti e banditi dovettero fare i conti anche con quegli uomini. L’Evis aveva bisogno di tranquillità per operare e per organizzarsi come esercito clandestino. E le scorrerie dei briganti, alle quali seguivano i rastrellamenti della polizia, non erano l’ideale.
Allora si decise di fare patti chiari con i banditi. Li cercai ovunque e dissi loro chiaro e duramente: “Qui agisce l’Evis. E necessario, dunque, che voi non operiate in queste zone”. Alcuni capirono l’antifona a volo e si squagliarono. Altri invece, come i fratelli Franco, non ne vollero sentire e allora si diede mano alle armi. Un giorno rimasero sul terreno tre banditi, proprio della banda Franco. I giornali, l’indomani, pubblicarono che erano stati ammazzati dai carabinieri. Non era vero. Ma a noi andava bene anche così.

Questo per dire che collusioni tra noi e banditi non ce ne furono. Anche perché, fatta eccezione per Giuliano, tutti gli altri erano tagliaborse e grassatori. Rapinavano anche per un paio di scarpe e per dieci lire. Giuliano no, Giuliano era diverso. Giuliano, tutto sommato, aveva una sua “morale”. Ricordo quando uno della sua banda fece una estorsione a suo nome senza che lui ne sapesse niente. Venuto a conoscenza della cosa, Giuliano lo attese e l’ammazzò. Quando arrivarono i carabinieri per portare via il cadavere, uscì da dietro un muro Giuliano col mitra spianato e disse loro: “Lasciatelo là. E un cane e merita di essere mangiato dai cani”.

No, no, mi spiace sfatare una leggenda, non avemmo alcun appoggio dalla mafia. Anzi, proprio perché io operavo in quel modo sbrigativo contro banditi e briganti presso i quali avevo conquistato un indubbio prestigio, un giorno mi mandò a chiamare don Calò Vizzini a Palermo.
“Ma che fai”, mi disse non appena mi vide. Risposi “Faccio quello che debbo fare”. E lui: “Stai attento perché uno di questi giorni ci potrai lasciare la pelle. Stai attento”. La mia forza e il mio prestigio in montagna crescevano, e i vari don Calò non gradivano tutto ciò che sminuiva la loro forza.
Ecco quali erano i nostri rapporti con la mafia. Ripeto, all’inizio, è vero, entrarono in massa nel Mis. Ma quando capirono che noi il potere non lo avremmo mai conquistato si squagliarono e finirono negli altri partiti. E, la sensazione della fuga dei mafiosi io l’ebbi alla vigilia del referendum, nel 1946, quando un rapporto della polizia di Palermo informava il Ministero dell’Interno che “si poteva stare tranquilli perché la mafia aveva abbandonato il Mis”. E il referendum confermò poco dopo: noi avemmo solo quattro deputati alla Costituente. Se avessimo avuto dietro la mafia ne avremmo portati quaranta».

Onorevole Gallo è ormai pacifico che Lucky Luciano “operò” per la liberazione della Sicilia. Lavorò anche per l’indipendentismo?

«A me personalmente questo non risulta. Io ho conosciuto Luciano, a Napoli, nel 1948, al rientro da un mio viaggio negli Usa. Passammo una serata insieme. Lo rividi più tardi, con grande disappunto del questore di Catania che si indignò e volle conto e ragione.

Ripeto, vidi parecchie volte Luciano. Gli chiesi anche di quella famosa circostanza di cui parlano tutti: l’accordo con don Calò Vizzini, il fazzoletto con la lettera “L” buttato a Corleone da un aereo americano prima dello sbarco degli alleati. Non mi disse niente di preciso, come era nel suo carattere. Si schermiva: “Eh, eh, dicono, dicono. Dicono tante cose. Lasciali dire”. E chiuse l’argomento. Quanto al Mis, posso dire che con Luciano non ebbe mai nulla a che vedere».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Effettivamente, quanto sostenuto da Gallo nella risposta alla prima domanda, trova conferma in una nota dell’Alto Commissario Aldisio (9 ottobre1944), che individuava un certo Lanza, Maggiore americano, fra gli esponenti di primo piano del “Movimento per la 49a stella degli Stati Uniti”.

In realtà, tale idea era caldeggiata dal “Fronte Democratico d’Ordine Siciliano”, il cui programma tendeva alla separazione dell’Isola dal continente, sotto la sfera d’influenza americana. Per i suoi fini programmatici, il movimento della “49a stella” si discostava, quindi, nettamente dal Mis capeggiato da Andrea Finocchiaro Aprile, che propugnava, ufficialmente, l’Indipendenza assoluta della Sicilia.

È pure vero che la mafia, per mezzo del suo capo carismatico don Calogero Vizzini tentò di entrare nelle fila del Mis. Infatti, abbiamo notizia che nella villa di Lucio Tasca a Mondello (Palermo) il 6 dicembre 1943 i separatisti tennero una riunione segreta, sia per la delicatezza degli argomenti che avrebbero affrontato, sia perché l’AMGOT non consentiva che i partiti politici svolgessero alcuna attività. La riunione si svolgeva come Cis (Comitato per l’Indipendenza della Sicilia), poiché non si era ancora formalmente costituito il Mis.

I partecipanti erano una quarantina provenienti da tutta la Sicilia e non tutti si conoscevano fra di loro. Il personaggio più caratteristico ed anche il più anziano (76 anni) era il cav. Calogero Vizzini di Villalba. Questi, più noto come don Calò, dichiarò di rappresentare gli indipendentisti di Caltanissetta. Fu subito smentito da Antonino Varvaro, il quale affermò che nessuno degli iscritti di Caltanissetta si chiamasse Calogero Vizzini. Il vecchio “Don” non si scompose e ribatté che non bisognava pensare agli iscritti di quel giorno ma a quelli numerosi dell’indomani, soprattutto, perché ad un suo cenno, se necessario, sarebbero state bruciate tutte le Camere del Lavoro della Provincia. E concluse dicendo: “queste sono le tessere che porto io”.

La maggior parte dei presenti restò scandalizzata e non pochi espressero il loro sdegno. Vizzini, tuttavia, non fu espulso dalla riunione, ma non gli venne rilasciata nessuna tessera e nessuno dei dirigenti del Movimento lo cercò mai. Purtroppo la sua presenza alla riunione sarebbe rimasta come un’ombra indelebile sul movimento indipendentista, anche quando, non molto tempo dopo, il vecchio “don” sarebbe passato nell’area del partito, diventato, intanto, il più potente della Regione: la Democrazia Cristiana.

Non c’è dubbio, infine, che anche il banditismo cercò nel separatismo un approdo per nobilitarsi, ma la cosa più sicura è che si tentò di inquinare l’indipendentismo apposta per liquidarlo.

(7. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

Berlusconi ha dato a Diego Cammarata il via libera per mettere le mani nelle tasche dei palermitani !

Cammarata ci aveva provato in consiglio comunale: proponeva il raddoppio delle tasse comunali nel tentativo di fare sopravvivere le dissestate municipalizzate. La proposta in consiglio comunale non passa; e che fa quindi il “ sindaco barcarolo “? Si rivolge all’ amico Silvio, che detto fatto in un consiglio dei ministri fa emanare un decreto ( unico nella storia, e precedente molto pericoloso per la democrazia di TUTTI ) che permette al ‘ Barcarolo ‘ di agire da solo infischiandosene del proprio consiglio comunale, sconfessando così la volontà dei rappresentanti dei cittadini, e dandogli così la licenza di tassare e tartassare i suoi cittadini.
Ai palermitani non resta che ringraziare “ l ‘utilizzatore finale e il barcarolo “ per avere raggiunto un record : PAGARE LE TASSE PIU’ ALTE D’ ITALIA !

In piazza con un veliero di legno per chiedere le dimissioni del sindaco

Un veliero di legno lungo più di un metro e mezzo, centinaia di barchette di carta e manifestanti con maschera, boccaglio e salvagente. Così un migliaio di palermitani hanno protestato in piazza Pretoria, davanti alla sede del Comune di Palermo, chiedendo le dimissioni del sindaco Diego Cammarata. Nei giorni scorsi una troupe di "Striscia la notizia” aveva scoperto che lo skipper della barca dei figli del sindaco è un dipendente di una società comunale e, secondo il tg satirico, l'uomo avrebbe lavorato sulla barca durante le ore di servizio. Il vento della protesta soffia anche contro la decisione assunta ieri dalla giunta di raddoppiare l'addizionale Irpef per rastrellare circa 23 milioni da utilizzare per colmare il buco dell'Amia, l'azienda di igiene ambientale. "Palermo affonda tolleranza zero", si legge su alcuni manifesti, su altri "Cammarata, ci pagherai tu la rata"
[26 settembre 2009]

sabato 26 settembre 2009

In manette Alberto Acierno del PDL, ex deputato dell' ARS e del parlamento italiano

Alberto Acierno, che è stato anche parlamentare nazionale, si sarebbe appropriato di 100.000 euro appartenenti a una fondazione finanziata dall'Assemblea regionale

PALERMO - Alberto Acierno, ex parlamentare nazionale ed ex deputato all'Assemblea regionale siciliana, è stato arrestato stamane a Palermo dalla guardia di finanza, in esecuzione di un'ordinanza cautelare emessa dal gip Pasqua Seminara. L'ex parlamentare si trova ai domiciliari e deve rispondere di peculato.

La gdf aveva accertato irregolarità nella gestione contabile della Fondazione Federico II, di cui Acierno è stato direttore generale. La Fondazione è finanziata con fondi dell'Assemblea regionale. Le fiamme gialle avevano avviato le indagini per danno erariale su delega del procuratore regionale della Corte dei conti di Palermo e, sotto il profilo penale, coordinati dal pm Sergio Demontis.

Acierno, nel periodo in cui ha rivestito l'incarico di direttore generale della Federico II, si sarebbe indebitamente appropriato di denaro della stessa Fondazione, utilizzando per scopi strettamente personali della carte di credito a lui concesse in uso per fini istituzionali, e avrebbe prelevato altre somme dalla cassa della Fondazione. L'ammontare sarebbe di circa centomila euro.

26/09/2009

http://www.lasicilia.it/index.php?id=28011&template=lasiciliaweb

Salvate il soldato Dell' Utri

di Marco Travaglio - 25 settembre 2009
"Nei processi non patteggiate mai, non parlate mai e fate passare più tempo possibile: magari intanto muore il pm, o il giudice, o un testimone...". Così dieci anni fa Marcello Dell'Utri erudiva i colleghi imputati e i discepoli in un circolo delle Marche.

Aveva appena patteggiato 2 anni e mezzo definitivi in Cassazione per false fatture e frode fiscale. Poi se n'era pentito e aveva licenziato i suoi avvocati. I fatti successivi gli hanno dato ragione.
Da allora ha subìto vari processi: estorsione, calunnia aggravata, mafia. Ma ad oggi non ha riportato condanne definitive (gliene basterebbe una sola per superare i 3 anni di cumulo-pena e finire in carcere). Tirare in lungo, a dispetto dei programmi e proclami del Pdl per una giustizia più rapida, gli è convenuto parecchio. Il processo di Milano che lo vedeva imputato per estorsione insieme al boss Vincenzo Virga s'è chiuso dopo due condanne, un annullamento in Cassazione e una nuova sentenza d'appello che ha riformulato l'accusa in 'minaccia grave', ormai caduta in prescrizione. L'appello a Palermo per concorso esterno in mafia ha appena imboccato una fulminea dirittura d'arrivo, con l'incredibile rifiuto della Corte di ammettere le nuove prove emerse dal fronte Ciancimino (compresa le lettere che Provenzano avrebbe scritto a Berlusconi per fargliele recapitare da Dell'Utri): il presidente Guido Dell'Acqua ha una gran fretta di raggiungere il Tribunale di Caltanissetta, dov'è stato promosso. E, a furia di "far passare più tempo possibile", rischia di evaporare in zona Cesarini l'appello del 'Dell'Utri-bis', in corso a Palermo per un presunto complotto di falsi pentiti che l'onorevole imputato avrebbe imbeccato per calunniare i veri pentiti che accusano lui. In primo grado Dell'Utri era stato generosamente assolto. In appello però s'è imbattuto in un presidente inflessibile: Salvatore Scaduti, giudice conservatore di Magistratura indipendente, celebre per aver ribaltato in appello le assoluzioni di Andreotti (prescrizione per il reato commesso fino al 1980) e Contrada (condanna a 9 anni). Sentenze inossidabili, poi confermate in Cassazione. Ora anche Dell'Utri rischia grosso. Ma, proprio in extremis, Scaduti è stato nominato consulente della commissione Antimafia. Se il Csm desse l'ok alla sua nomina, collocandolo subito fuori ruolo, il processo ripartirebbe da zero e riposerebbe in pace grazie alla solita prescrizione. A rendere più imbarazzante il tutto, c'è un dettaglio: a proporre Scaduti all'Antimafia è stato il Pdl. Cioè il partito di Dell'Utri e di alcuni suoi avvocati. Scaduti, per la sua carriera, merita questa e altre promozioni. Ma, per un'esigenza di giustizia e per risparmiargli inutili malignità, il Csm dovrebbe autorizzarla a condizione che, prima, il giudice concluda il suo lavoro. Altrimenti si consacrerebbe una singolare versione dell'antico 'promoveatur ut amoveatur': l'imputato fa promuovere il suo giudice per far saltare il suo processo.

Tratto da: L'Espresso

venerdì 25 settembre 2009

PALERMO AFFONDA:MANIFESTAZIONE CONTRO CAMMARATA

"Cammarata in barca e Palermo affonda". Inondiamo Piazza Pretoria con migliaia di barchette di carta contro il sindaco Cammarata.
SABATO MATTINA ALLE 11.OO TUTTI A PIAZZA PRETORIA CON UNA BARCHETTA DI CARTA.

una manifestazione spontanea che somma cittadini. chiunque è invitato a partecipare, ma senza bandiere o sigle, nè politiche, nè sindacali, nè di gruppi o associazioni. cittadini singoli. se ognuno di noi ha un gruppo o un partito o un'associazione lo usi per diffondere la notizia, ma la manifestazione vedrà singoli.
giusto per accontentare tutti e non scontentare nessuno.

mercoledì 23 settembre 2009

Cammarata e il mozzo : Aperta inchiesta dalla magistratura

Assenteista fa il marinaio per il sindaco
'Striscia' denuncia. Aperta un'inchiesta
È scattata alcune settimane fa, in seguito a un esposto anonimo arrivato al Tribunale, l’inchiesta della Procura della Repubblica per accertare le irregolarità che sarebbero state compiute dal sindaco Diego Cammarata e da un dipendente della Gesip, la società di servizi del Comune. Il caso è stato raccontato lunedì sera da «Striscia la notizia» che ha svelato come un dipendente della Gesip, Franco Alioto, non si sarebbe mai presentato al lavoro, prestando invece servizio come marinaio sulla barca dei figli del sindaco, utilizzata dallo stesso primo cittadino di Palermo. Secondo quanto rivelato da «Striscia la notizia» il dipendente della Gesip si sarebbe occupato anche di noleggiare la barca incassando in nero, come documenta il servizio, i soldi pattuiti. La Procura ha disposto l’acquisizione di una copia del servizio televisivo.

La replica di Cammarata «La barca oggetto del servizio di Striscia La Notizia è di proprietà dei miei figli che l’hanno acquistata con atto del 10 febbraio 2004. Come è ovvio ne ho piena disponibilità. Purtroppo questo avviene solo raramente. Questa estate ne ho usufruito solo per un paio di fine settimana». Lo dice il sindaco di Palermo Diego Cammarata commentando il servizio. «Dall’estate scorsa — aggiunge — la barca è in vendita, perchè neanche i miei figli hanno il tempo di usarla e quest’estate la barca è rimasta praticamente ferma. Conosco il signor Franco Alioto da molto tempo e si è occupato occasionalmente, e fino a ieri, di verificare che la barca sia in ordine. Lo faceva in piena autonomia e fuori dall’orario di lavoro, come è naturale che avvenga. Al riguardo ho già disposto che la Gesip proceda ad una indagine interna sulla presenza nel posto di lavoro di Alioto».

«Sull’episodio — prosegue — riportato nel servizio di Striscia, posso affermare che questa estate il signor Alioto chiese di noleggiare la barca. Tale autorizzazione gli fu negata e gli fu intimato anche di restituire l’acconto che impropriamente aveva ritenuto di farsi lasciare, come lo stesso ha subito fatto. Mi auguro che gli intervistatori confermino tutto questo. Ho comunque dato incarico ai miei legali di tutelare i miei diritti davanti le sedi competenti».

La sfiducia I consiglieri comunali del Pd hanno deciso di presentare una mozione di sfiducia al sindaco (devono raccogliere venti firme in Consiglio) e per questo chiedono l’a ppoggio degli altri gruppi fuori dalla maggioranza. L’opposizione di centrosinistra conta 15 consiglieri su 50 ma l’Mpa (5 consiglieri) e la parte del Pdl che fa riferimento al sottosegretario Miccichè (altri 5) hanno più volte dichiarato di essere all’opposizione chiedendo le dimissioni del sindaco.

Le dimissioni «Il servizio andato in onda ieri sera su “Striscia la notizia” ha devastato l’immagine della città agli occhi di tutta Italia», dice il capogruppo del Pd al Comune, Davide Faraone. «Abbiamo scoperto fra l’altro — aggiunge — che il figlio del mozzo di Cammarata, risulta fra gli assunti senza concorso nelle spa comunali e precisamente alla Sispi». Sulla stessa linea le eurodeputate Rita Borsellino e Sonia Alfano (Idv). A invocare le dimissioni di Cammarata è anche l’Mpa di Raffaele Lombardo. «Abbiamo toccato il fondo, adesso è il momento di risalire la china attraverso le elezioni per il nuovo sindaco», dicono i consiglieri comunali autonomisti. «A due anni dal mandato elettorale — aggiungono — il sindaco può dichiarare il proprio fallimento: il patto sottoscritto con gli elettori è stato disatteso».

Meno diretto l’invito rivolto a Cammarata dal sottosegretario alla Presidenza, e suo ex sponsor politico, Gianfranco Micciché: «Non voglio neanche discutere se votare o meno la mozione di sfiducia presentata dall'opposizione - dice - Spero solo che il sindaco prenda le iniziative più idonee per evitare il dibattito in aula».

L’azienda «Ho avviato un’indagine interna e ho convocato Franco Alioto per sentire anche la sua versione dei fatti. Di certo immediatamente lo trasferirò, in via cautelativa, dal settore verde ai servizi cimiteriali della Gesip». Lo dice il direttore generale dell’azienda Giacomo Palazzolo. «Alioto è stato assunto nel novembre del 2003 — continua — e ha ricevuto due promozioni, nel 2004 e nel 2006: avanzamenti di quadro. In azienda è nota la sua esperienza di marinaio: ora bisogna verificare se effettivamente lavorasse su barche durante l’orario di lavoro».
(22 settembre 2009)
http://palermo.repubblica.it/dettaglio/assenteista-fa-il-marinaio-per-il-sindaco-la-denuncia-su-striscia-aperta-uninchiesta/1727376

martedì 22 settembre 2009

Ultimi anche per benessere

Il Sole 24 ore ha stilato una classifica utilizzando un nuovo indice, il "Bil", benessere interno lordo. Maglia nera per la Sicilia: Caltanissetta e Siracusa chiudono la graduatoria, Enna la prima dell'Isola. Forlì e Cesena le città dove si vive meglio

ROMA - Il primato del benessere in Italia va alla Romagna, con le province di Forlì-Cesena e Ravenna, prima e seconda nella classifica nazionale delle 103 province italiane elaborata dal Sole 24 ore. Il quotidiano economico ha misurato il Bil (Benessere interno lordo), un nuovo indice con otto indicatori che tende a verificare la qualità della vita, e va oltre il criterio del Pil e della ricchezza. Gli otto indicatori utilizzati per l’ indagine prendono in considerazione le condizioni materiali di vita, salute, istruzione, attività personali, partecipazione alla vita politica, rapporti sociali, ambiente, sicurezza economica e fisica.


Per la Sicilia un disastro. In ultima posizione si colloca Siracusa, zavorrata dal peso dell'inquinamento ambientale; penultima Caltanissetta. Catania e Palermo sono rispettivamente al 97° e 98° posto, precedute da Agrigento, 95°, Ragusa, 94°, Trapani, 92° e Messina, 89°. La prima delle siciliane è Enna, all'88° posto.

Il nuovo indicatore spinge soprattutto Rieti, che scala ben 54 posizioni, mentre Roma ne perde 74. Fa peggio solo Bolzano, in caduta di 77 posti. Milano che domina la graduatoria del pil, deve accontentarsi al 37°: qui pesa il fattore insicurezza personale, con oltre 5 mila reati l'anno ogni 100 mila persone.

"Stiamo lavorando - dice l'assessore regionale all'Industria, Marco Venturi - per far sì che in Sicilia diminuisca il gap esistente, in termini di Pil ma anche di benessere sociale, con il resto delle regione italiane. Certo è innegabile, lo dico come assessore all'Industria ma anche da imprenditore, che l'assenza di grandi opere infrastrutturali efficienti, come la linea ferrata ad alta velocità, il miglioramento e l'ampliamento dell'anello autostradale e di quello elettrico, incidano, e tanto, sull'economia della nostra regione ma anche sulla vita e sul benessere dei siciliani".

Venturi non cerca scuse. "Possiamo discutere della validità o meno degli studi statistici ma il dato ci deve far riflettere. In una regione come la nostra, in cui la disoccupazione è a livelli di massima allerta, la criminalità mafiosa vessa la libera impresa, i migliori cervelli sono costretti ad emigrare per emergere e l'onda lunga della crisi economica mondiale qui si è maggiormente percepita, non è più il tempo delle parole. La mia ricetta è quella di puntare ad idee di sviluppo nuove e innovative. Serve far crescere il mondo delle piccole e medie imprese siciliane, mantenendo sempre viva l'attenzione sulle grandi industrie".

21/09/2009
http://www.lasicilia.it/index.php?id=27775&template=lasiciliaweb

...e loro continuano a pensare al Ponte !!

Palermo, lavoratori fantasma pagati dal Sindaco......alla faccia dei disoccupati!!.

Laguna siciliana, Palermo batte Venezia!!.

lunedì 21 settembre 2009

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (6a parte)

Storia del Movimento per l'Indipendeza della Sicilia, raccontata dal comandate dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

"All’alba del 29 dicembre ’45, cinquemila militari italiani circondarono Piano della Fiera. Furono tenuti in scacco da cinque evisti per un giorno intero. Cadde il giovane indipendentista Diliberto e il sottoscritto finì prigioniero".


«Nella seconda metà del 1945, mentre io mi trovavo nella clandestinità sulle montagne attorno a Caltagirone, alcune componenti politiche dell’indipendentismo avevano preso contatto con esponenti dell’Italia per la ricerca di una soluzione pacifica che escludesse o che evitasse lo scontro armato. E in effetti qualcosa di sostanziale riuscirono a ottenere. Un giorno qualcuno mi avvertì che mantenessi calmi i miei uomini perché qualcosa a Roma si stava muovendo in senso molto favorevole a noi. E in effetti, all’incirca verso il mese di novembre del 1945, l’allora il ministro degli Interni, Giuseppe Romita, inviò, espressamente, un aereo militare a Catania con il compito di portare a Roma una rappresentanza dell’indipendentismo.

Su quell’aereo si imbarcarono alcuni esponenti prestigiosi del Mis. C’erano l’onorevole Bruno di Belmonte, mio padre, Ulisse Galante, Giuseppe Bruno e l’avvocato Pontetoro. Riunitasi a Roma insieme con altri elementi del Mis, la commissione presentò a Romita un progetto di armistizio che prevedeva il rientro nella legalità di tutti i giovani dell’Evis, la libertà di parola, la riapertura delle nostre sedi, e così via. Romita fu largo di promesse. Promise anche il riconoscimento di una bandiera siciliana, la bandiera giallo-rossa con una coccarda tricolore, ma i più intransigenti indipendentisti saltarono per aria “No, la coccarda no”, dissero sdegnati. Fu mio padre, con molto buon senso, che accettò la proposta. “Ma sì”, disse. “La coccarda tricolore nella bandiera siciliana può andare benissimo”, concluse.

A questo colloquio ne seguirono, tra Palermo e Roma, alcuni altri nei quali, sia pure non ufficialmente, ci si occupava del problema del fatto compiuto: vale a dire dell’esistenza dell’Evis, del destino degli uomini che erano finiti nella clandestinità. Accordi precisi non ne vennero fuori. Si stabilì a un certo punto che una volta entrato in vigore quella sorta di statuto tutto dovesse ritornare come prima, che gli uomini sarebbero scesi dalle montagne, avrebbero deposto le armi e “in un modo o nell’altro sarebbe stata trovata una soluzione”.

Era questa soluzione che io stavo aspettando nella prima metà del mese di dicembre 1945 sulle montagne di Caltagirone. I messaggi che mi venivano dal Movimento erano improntati al migliore ottimismo e invitavano, costantemente, a non “creare disordini”. Per questa ragione, vale a dire per non turbare i “pour parler” in corso con errori, bloccai a Nicosia e a Pietraperzia una colonna di circa duecento giovani che doveva ricongiungersi al mio gruppo.

Ma il ventisette dicembre Guglielmo di Carcaci mi inviò un messaggio. “Stai attento”, diceva il biglietto, “perché in questi giorni le zone dell’Etna e quelle di Catania pullulano di soldati. Ci sono molti movimenti strani”.

Il giorno dopo, il ventotto dicembre, un gruppo di contadini mi avvertì che Caltagirone era diventata un vero e proprio presidio e che c’erano anche dei carri armati. La mattina del 29 dicembre, all’alba, raggiunsi la sommità di Piano della Fiera dove c’era il nostro accampamento. La zona era quasi tutta circondata dalla nebbia.

I giri d’orizzonte col binocolo non dicevano granché. Poi, alle sei e mezzo, arrivò la prima bordata di mortai. La battaglia era già iniziata. Noi, come dicevo, eravamo una sessantina in tutto, compreso un gruppo di briganti che durante la notte si era avvicinato al nostro accampamento per rifocillarsi. Inoltre mancava la pattuglia di cinque uomini che la notte precedente era stata mandata in avanscoperta.
Non appena si diradò la nebbia, affiorò chiara, in me e poi negli altri, la sensazione che era arrivata la nostra ultima ora. L’accerchiamento nei nostri confronti era già stato effettuato. Ma, convinto che la guerra sarebbe dovuta continuare anche dopo di me, operai in modo di impegnare le truppe e di fare sganciare il grosso dei miei uomini. Mentre io con cinque giovani, Amedeo Boni, Emanuele Diliberto, Filippo La Mela e due contadini, mi portavo verso le truppe, carabinieri, polizia, soldati, per impegnarli frontalmente, e dar così modo al resto degli uomini di arretrare, ordinai al resto della compagnia di sganciarsi e di abbandonare la zona.

La battaglia cominciò a diventare aspra. Le truppe cercano di creare attorno a loro la terra bruciata. I cinquemila uomini, al comando dei cinque generali, cominciarono a sparare con una intensità inaudita: come se di fronte a loro avessero avuto un vero e proprio esercito. In effetti a questa “credenza” avevamo contribuito anche noi inviando al ministero degli Interni, nei mesi precedenti, rapporti, su carta intestata dell’Ispettorato generale di polizia, nei quali si drammatizzava enormemente la situazione e dove si parlava di basi, di ingente numero di armi e materiali.
I miei uomini operano lo sganciamento attorno alle due del pomeriggio. A quell’ora contro cinquemila uomini che, come scrissero più tardi i giornali, “sparavano migliaia e migliaia di colpi” non c’ero che io e altri quattro. La bandiera giallo-rossa garriva al vento e più tardi, quando le truppe si avvicinano alla nostra postazione, era l’obiettivo principale dei tiratori. Verso le due e trenta del pomeriggio, sistemai un cecchino al mio fianco sinistro per impedire una sortita da parte delle truppe. Ma l’uomo, il giovane Diliberto di Palermo, commise un errore. Per raggiungere una posizione più avanzata si spostò e nel tragitto venne colpito a morte.

All’infernale fuoco delle truppe noi rispondemmo alla meglio con le nostre armi in dotazione: fucili, mitra e bombe a mano. Ormai stava per calare la sera e le nostre munizioni erano finite.

Sembrava che la morte non mi volesse. Una pallottola mi colpì al petto ma fu deviata da una medaglietta che tenevo nel taschino del giubbotto. Più tardi una raffica di mitra mi sfiorò il fianco bucando il giaccone e lasciandomi indenne. Poi una fucilata mi sfiorò all’altezza del cavallo dei pantaloni. Anche questa non mi colpì. Un colpo mi portò via il berretto e mi colpì lievissimamente alla testa.

Fu il momento in cui capii che non c’era più niente da fare. Che l’unica cosa era morire là sul quel pianoro, insieme con i miei amici, i miei uomini. Ordinai a Boni e a La Mela di mollare e di arrendersi. Boni rifiutava di abbandonarmi e io glielo imposi. Restai solo. Fu allora che staccai la bomba a mano che tenevo legata alla cintura, tirai fuori la spoletta e me la buttai tra i piedi nella speranza di saltare per aria. La bomba non esplose.

Ormai era quasi sera. C’era un sibilo. E una bomba, una granata, esplose davanti a me. Il buio della morte arrivava col buio della serata? Macché. Pochi minuti dopo mi risvegliai. Accanto c’era un maresciallo dei carabinieri, il maresciallo Manzella, che, come avrei saputo più tardi, mi aveva salvato la vita. Trovandomi infatti svenuto, il milite della pattuglia che mi aveva scoperto aveva già puntato il mitra contro di me e stava per lasciare partire una raffica quando intervenne il maresciallo dei carabinieri Manzella. E lui che puntando a sua volta il mitra contro l’uomo gli disse: “Se tiri contro quell’uomo ti ammazzo”.

Ma non ebbi molto a gioire, almeno per qualche tempo, di essere scampato alla morte. Ammanettato come un brigante, venni caricato su un camion e portato a Catania dove, immobilizzato ancora di più, mani e piedi, venni buttato dentro una cella, nella quale sono vissuto per due giorni senza bere e mangiare.

Quanto al resto dell’armata italiana, continuò a bombardare il Piano della Fiera fino all’indomani mattina alle sei. Il generale Fiumana, uno dei cinque generali che comandavano le truppe, incontrando più tardi mio padre gli tese la mano dicendo: “Ho avuto l’onore di stringere la mano a suo figlio”. Così finì la guerra per l’indipendenza della Sicilia».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Il 29 dicembre 1945 avvenne, dunque, l’ultima battaglia dell’Evis. I 56 guerriglieri indipendentisti furono completamenti accerchiati da oltre 3000 militari italiani delle divisioni “Sabauda” e “Aosta”. Concetto Gallo, vista impossibile ogni resistenza, licenziò i suoi “evisti”, per evitare loro una morte sicura; ma due di essi, lo studente liceale Amedeo Bonì di Santa Teresa di Riva e il contadino Giuseppe La Mela di Adrano, vollero rimanere con lui, votandosi anche alla morte pur di non lasciare solo il loro amato comandante.

Nella sparatoria che si verificò, ci furono due vittime, il giovane Diliberto e l’appuntato dei Carabinieri Giovanni Cappello di Santa Croce Camerina. Ma non fu il mitra di Concetto Gallo ad ucciderlo, perché i suoi proiettili erano di calibro 8,8, mentre il colpo fatale risultò all’autopsia di calibro 6,5, che era quello dei moschetti dei Carabinieri. Gallo fu perciò fatto prigioniero con i due giovani evisti e sarebbe stato scarcerato soltanto dopo la sua elezione a Deputato alla Costituente il 2 giugno 1946.

È interessante il contenuto della nota riservata, datata 4 marzo 1946, del Ministero dell’Interno al Ministro della Guerra e per conoscenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Veniva data notizia, infatti, di un probabile colpo di mano che i guerriglieri dell’Evis, sfuggiti all’assedio di San Mauro, avrebbero voluto attuare al fine di liberare dal carcere, il loro Comandante Concetto Gallo e gli altri esponenti separatisti ivi detenuti. Episodio, questo, che fa comprendere quanto alto fosse il prestigio di Gallo e come i giovani dell’Evis fossero ancora motivati ed attivi.

La loro voglia di battersi veniva, però, sapientemente trattenuta dai dirigenti separatisti che erano a conoscenza delle trattative in corso, tra gli “esuli” di Ponza e il Ministro Romita.

Per un ventennio circa, Concetto Gallo subì processi penali e civili scaturiti, direttamente ed indirettamente, dalla sua attività di Comandante dell’Evis, con un susseguirsi di assoluzioni e di condanne. Vale la pena di ricordare che nel dibattimento del 26 ottobre 1950, in Corte d’Assise di Catania, il Dr. Salvatore Quattrocchi Pm, si lasciò andare ad alcune attestazioni di ammirazione per la figura di Concetto Gallo, considerandolo un combattente per il riscatto della Sicilia, bistrattata, impoverita e degradata, che misero in serio imbarazzo il Presidente della Corte.

In quella occasione, l’imputato Gallo era contumace, ed il Mis era in piena crisi. Quindi, la presa di posizione del Pubblico Ministero dimostra come la cultura indipendentista fosse ancora presente nella realtà siciliana, a prescindere dalle fortune elettorali o politiche del Partito Separatista e dei suoi esponenti più in vista.

A Monte San Mauro, Concetto Gallo fece erigere una stele (con base e forma triangolare che richiama la Sicilia), per ricordare la gloriosa battaglia e onorare tutti gli evisti morti per la “causa siciliana”. Purtroppo, mani ignote ne hanno asportato la lapide mutilandone la sacralità.

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (5a parte)

Storia del Movimento per l'Indipendeza della Sicilia, raccontata dal comandate dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Quarantotto ore con Giuliano: "nell’estate del 1945, a Ponte Sagana, incontrai il re di Montelepre"


«Esposi a Lucio Tasca la mia idea di parlare con Giuliano, al fine di garantirci nella eventualità di una sistemazione dei giovani dell’EVIS nella sua zona. Tasca rise: “Sì ora fai il numero di telefono e ti risponde Giuliano”. Lo lasciai e insieme con Guglielmo di Carcaci effettuammo un giro nelle sezioni alla ricerca di un contatto utile a fare arrivare un messaggio a Giuliano.

Un paio di giorni più tardi mi indicarono la zona dove operava Giuliano: Ponte Sagana, e partii. In auto eravamo in quattro: io, Guglielmo di Carcaci, Stefano La Motta, il corridore automobilista, e un certo Pietro Franzoni. Arrivati a Ponte Sagana, in base alle indicazioni avute, dissi loro di fermarsi, di lasciarmi, di ripartire e di ritornare due giorni dopo. M’incamminai e dopo mezz’ora lo incontrai.

“Chi vi manda qui?”, domandò il giovane. “Mi chiamo Concetto Gallo, sono indipendentista, il comandante dell’Evis”, risposi. E aggiunsi: “E voi chi siete?”. Rispose: “Giuliano sono. Salvatore Giuliano”. Eravamo a Ponte Sagana, sulla strada Palermo-Trapani, un giorno del mese di agosto 1945. Era la prima volta che vedevo Turiddu Giuliano.

Giuliano era solo. Non era vero che andasse sempre circondato dai suoi uomini. Agiva sempre da solo. L’intesa fu quasi immediata. Lui disse di conoscermi “di fama”. A poco a poco si raggiunse la completa fiducia reciproca. Tanto è vero che a un certo punto della notte mi disse: “Ora io dormo un’ora e vossia fa la guardia. Poi, quando io mi sveglio, si appisola vossia”. E mi diede il mitra. Poco dopo sentii un rumore, lo svegliai ma lui, sicuro: “Vossia non si preoccupi: dev’essere stata una lepre”.

Di che cosa parlammo con Giuliano? Per la verità all’inizio parlai soltanto io. Feci quello che si dice l’indottrinamento. Cercai di spiegargli, con parole acconce, in modo che lui le potesse capire, che cosa aveva rappresentato l’Italia, l’unità, per la Sicilia. E cominciai sin dai tempi di Verre. I saccheggi, le spoliazioni, le distruzioni, le amarezze. Gli portai altri esempi: “Hai mai sentito parlare dei cantieri Florio? Ebbene quei cantieri furono chiusi quando, con l’unità d’Italia, l’industria cantieristica di Florio divenne la Florio-Rubattino”. E lui: “Ah, sì”. “Esisteva in Sicilia una grande industria di ceramica che aveva 400 operai. Quell’industria venne acquistata dalla Ginori e subito chiusa. Garibaldi? Anche Garibaldi tradì i siciliani”. Alla fine lui mi disse: “Ma allora che cosa ci hanno insegnato?”. E io: “Il falso”.

Poi gli esposi lo scopo della mia visita, che avevo cioè da sistemare i giovani dell’Evis rimasti sbandati dopo l’eccidio di Randazzo e la morte del comandante Canepa.

Naturalmente si parlò anche di operazioni. Io ero propenso per un allargamento della lotta nella zona occidentale. Lui rispose: “Qui no”. E mi spiegò le ragioni. Che erano queste: trattandosi di zone brulle sarebbe stato difficile un vero e proprio rifornimento per l’esercito. Infatti lui, di problemi, sotto questo profilo, non ne aveva in quanto la sua banda si riuniva solo occasionalmente; per il resto, infatti, gli elementi di Giuliano vivevano come pacifici contadini.

Quindi lì, a Partinico, no. Per il resto la collaborazione sarebbe stata stabilita caso per caso. È assolutamente falso, ignobilmente falso, che io abbia promesso a Salvatore Giuliano la immunità per tutto quello che aveva commesso. È falso perché sarebbe stato sciocco, stupido, controproducente fare una simile promessa.

A un certo punto di quelle quarantotto ore in cui noi due siamo stati insieme mi raccontò la sua vera storia. E fu alla fine di quel racconto che io gli dissi questo: “Senti, Turiddu, io non ti posso promettere nulla. O perlomeno non molto. Ma questo che ti dico te lo posso promettere, sono autorizzato a prometterlo anche a nome degli altri i quali, se io domani dovessi morire, manterranno la mia parola. Io ti prometto che, se tu in questa lotta ti comporterai bene, dimenticando tutto il resto e guardando all’ideale dell’indipendenza, soltanto a quello, ti prometto che se vinceremo noi avremo una giusta considerazione per te e tu sarai giudicato per quelle che sono le tue vere colpe”.

Era un discorso tra uomini. Onesto, tra due latitanti. Gli avevo detto, infatti: “Vedi, tu sei qua sopra le montagne per i tuoi motivi; noi siamo sulle montagne per altri motivi. Noi potevamo stare benissimo nelle nostre case. Invece abbiamo deciso di batterci per un ideale di libertà e di indipendenza. Libertà e indipendenza che se la Sicilia avesse avuto prima, avrebbero inciso sul suo sviluppo economico e, certamente, tu, oggi, non saresti qui, in questa situazione”.

Con Giuliano, dunque, cercai di trovare un’intesa su un ideale e non una complicità mafiosa. Certo, molti hanno parlato di rapporti tra indipendentismo e mafia. E i rapporti ci furono indubbiamente. Ma furono rapporti cercati più dalla mafia che dagli indipendentisti.

E mi sembra anche abbastanza logico per un paese come la Sicilia. Inizialmente, è vero, la mafia, ma la mafia di Vittorio Emanuele Orlando, la mafia che cercava il potere, fu tutta con noi. Era stata debellata da Mussolini, dal prefetto Mori e con l’invasione alleata cercò di ricostruire le sue fila e cercò di inserirsi nell’area del potere.

È vero. All’inizio fu con noi. Chi era, infatti, il cavallo vincente tra il 1943 e il 1945? Naturalmente il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. E, infatti, arrivarono tra le nostre file. Poi quando si ricostruirono i partiti, quando la conferenza di Yalta spartì ufficialmente il mondo e americani e inglesi, sicuri che l’Italia sarebbe appartenuta al mondo occidentale, lasciarono il Movimento a se stesso, la mafia capì quello che avevano capito anche alcuni degli indipendentisti traditori: che il potere, il vero potere sarebbe stato esercitato da altri partiti, non dal Movimento. E ci abbandonarono. I rapporti con Giuliano furono, dunque, per una intesa sul terreno dell’indipendentismo e della lotta clandestina.

Dopo quarantotto ore di colloqui a quattrocchi, Giuliano mi accompagnò a Ponte Sagana. Ci stringemmo la mano e ci salutammo. “Chi tocca a vossia, mori”, mi disse, e ci abbracciammo. Era commosso. Non dimenticherò mai quegli occhi. Non lo avrei mai più visto. Giù vicino al ponte c’era già l’automobile con Carcaci, La Motta e Castrogiovanni che mi attendeva. Montai in automobile e rientrai a Palermo.

Un paio di giorni più tardi lasciai Palermo e mi spostai a Caltagirone, a San Mauro di Sotto, dove c’era una proprietà che apparteneva a mia moglie e dove io avevo collocato le nuove forze dell’Evis; una sessantina di giovani di ogni parte della Sicilia, in maggior parte messinesi, con le divise dell’Evis. Giovani che mantenevo io, con i soldi che riuscivo a ricavare dalla vendita dei prodotti della proprietà di mia moglie. Perché, di finanziamenti, il Mis e l’Evis non ne ebbero mai. I finanziamenti erano rappresentati dai contributi che ciascuno di noi pagava. Piccoli contributi di danaro e grandi contributi di sangue.E fu proprio col sangue che finì l’avventura dell’Evis. Proprio a San Mauro di Sopra, al Piano della Fiera, dove la mattina del 29 dicembre 1945 l’esercito sostenne la sua prima e ultima battaglia.

La prima e l’ultima battaglia combattuta tra siciliani e italiani, tra Sud e Nord, cominciò il 29 dicembre 1945 sul Piano della Fiera, a pochi chilometri da San Mauro di Sopra, nei pressi di Caltagirone. I siciliani erano una sessantina, sotto il mio comando: morto Canepa, come ho detto, io ero diventato il secondo comandante dell’EVIS sotto il nome di Secondo Turri.

Gli italiani erano oltre cinquemila ed erano sotto il comando di cinque generali. Con loro avevano un aereo da ricognizione, cannoni, mortai, fucili, mitra e carri armati.

Anche la battaglia, come del resto ogni altro episodio che ci interessava, in quei giorni fu preceduta da un tradimento, il solito tradimento all’italiana. Alla morte di Antonio Canepa erano seguiti il riordinamento del nostro esercito sotto la mia guida e tutta una serie di collegamenti tra cui quello da me operato con Giuliano. Lo scontro decisivo, però, tardava a venire e di questo ne avevano approfittato le due parti, indipendentisti e governo centrale, che nel 1945 era ormai insediato a Roma, per risolvere sul piano politico la questione dell’indipendenza siciliana».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Dopo avere incontrato Gallo, Giuliano si entusiasmò per gli ideali indipendentisti e nelle sue azioni di guerriglia inalberò, con orgoglio, il vessillo giallo-rosso. Senza dubbio, il nuovo impulso che venne dato alla propaganda separatista, in un linguaggio non troppo ortodosso, a Montelepre e nei paesi vicini, era attribuibile all’azione di Giuliano, dei suoi parenti e dei suoi collaboratori.

È significativo, a tal proposito, un manifestino dattiloscritto, che circolò in San Giuseppe Jato, nel quale veniva fatto il nome di Giuliano, fra l’altro, contenente il seguente invito: “Siciliani! Unitevi in squadre, formate le bande e combattete per la libertà, …, a morte la Polizia Italiana che agisce ancora fascisticamente contro il popolino siciliano”. Di analogo tenore erano le note della Prefettura di Palermo e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, che segnalavano scritte sui muri, manifesti, iniziative politiche, di matrice separatista, supportate da Giuliano e dai suoi uomini. L’idillio con il Separatismo e la disistima verso Andrea Finocchiaro Aprile e gli altri dirigenti, da parte di Giuliano, aumentò a dismisura quando quest’ultimo apprese dai propri legali che l’amnistia del 20 giugno 1946, applicata a molti giovani dell’Evis, non sarebbe stata estensibile a lui stesso e ai componenti della sua banda, perché colpevoli di reati comuni commessi sia prima e sia dopo il periodo della loro militanza nell’Esercito Separatista.

sabato 19 settembre 2009

La lingua siciliana

Alla Corte di Federico II LA LINGUA SICILIANA Anticipò di un secolo il Dolce Stilnovo
Negli ultimi tempi, si parla spesso dell’importanza dei dialetti locali e dell’opportunità di salvaguardare la tradizione linguistica delle varie regioni italiane, attualmente a rischio di “estinzione”.
L’indebolimento del dialetto è dipeso senz’altro da una forma di snobismo manifestata dalle classi più agiate nei confronti dell’abitudine del “popolo” di parlare attraverso espressioni dialettali che, come molti forse non sanno, hanno alle origini una lunga tradizione legata alla storia delle realtà locali. Eppure, tra dialetto e lingua esiste una vera e propria affinità genetica, come del resto tra gli stessi dialetti, legati tra di loro da una parentela che, in Italia, riconduce veneziano, milanese, romanesco, fiorentino, siciliano, ecc. tutti ad un nobile antenato comune: il latino.
Malgrado ciò, si è diffusa la strana convinzione che parlare in dialetto sia poco raffinato, poco prestigioso e persino segno di ignoranza; una convinzione, questa, che ha provocato, sulla base di un giudizio di ordine sociale assolutamente discutibile, una sorta di graduatoria tra i dialetti, secondo la quale, per esempio, il romanesco è “simpatico”, il fiorentino “adorabile”, il siciliano “orribile”.
Se ci si ferma un attimo a pensare, però, non si può non notare che mentre nel nominare gli altri dialetti si fa di solito riferimento alle città di origine (veneziano, milanese, fiorentino, ecc...), si parla invece genericamente di siciliano e non di palermitano, catanese, messinese, se non per indicare il diverso accento che caratterizza il modo di parlare nelle varie province siciliane.
Questa curiosità trova forse la sua spiegazione nel fatto che il siciliano, prima ancora di essere un dialetto regionale, è stato ed è una vera e propria lingua, forse la più importante delle lingue regionali, considerato che è proprio dalla lingua siciliana del Duecento che è nata, alla corte di Federico II, la lingua letteraria italiana.
La storia della lingua è, infatti, profondamente legata alla storia dei dialetti, tenendo presente che, in realtà, non è neanche possibile parlare di dialetto se non in riferimento ad un ben definito e radicato concetto di lingua comune, dotata di maggiore prestigio e di maggiore considerazione sociale .Dal Duecento al Quattrocento la scrittura in Italia rifletteva ancora gli usi linguistici locali che, anche se attenuati dall’applicazione del latino, prima, e del toscano, dopo, hanno tutti comunque contribuito alla nascita del cosiddetto volgare, un idioma che, dopo un uso inizialmente solo occasionale, venne presto adottato come lingua letteraria nell'ambito della poesia lirica, conquistandosi così una sempre maggiore considerazione tra gli autori del tempo. In questo contesto culturale, nel XIII secolo si sviluppò nell'Italia meridionale, nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, la prima scuola poetica italiana, dettaappunto “siciliana” perché il fulcro del regno di questo interessante imperatore fu proprio la corte di Sicilia, come ricorda Dante nel De vulgari eloquentia.
Quando ebbe inizio l’opera della scuola siciliana, molti poeti italiani imitavano la letteratura provenzale in lingua d’oc, adoperando la stessa lingua usata dai trovatori per celebrare il nuovo concetto dell'amore “intellettualizzato”. Anche i poeti siciliani, come i connazionali, presero ispirazione dalla poesia provenzale, solo che, con un'intuizione geniale, sostituirono la lingua straniera con un volgare italiano, il volgare di Sicilia: non uno dei tanti idiomi del meridione continentale, ma il siciliano insulare, probabilmente influenzati anche dal fatto che fu proprio un siciliano l'iniziatore della lirica sveva, Giacomo da Lentini, inventore di una fortunata forma metrica, il sonetto, sopravvissuto al passare dei secoli. E, considerato che lo stesso Federico II poetò in quella lingua pur non essendo siciliano di nascita, così come altri poeti della scuola siciliana, è ragionevole pensare che la scelta del siciliano ebbe valore propriamente formale, come dimostrerebbe anche lo stile altamente raffinato del volgare usato per la poesia siciliana.
Anche Dante nel De vulguri eloquentia, primo vero trattato sulla lingua e sulla poesia volgare, nel tentativo di individuare il volgare illustre, celebrò la superiorità del siciliano, ovviamente non di quello popolare ma di quello di elevato livello formale adoperato dai poeti della corte di Federico II e nobilitato proprio attraverso il suo impiego nell’ambito della letteratura. Del resto Dante precisò che i rimatori del Duecento considerarono il volgare siciliano come loro lingua-base.
Per quasi due secoli (XI e XII) il siciliano fu passibile di continui miglioramenti: Ciullo d’Alcamo nel “Contrasto Amoroso” scrisse “…per te non aio abbento…”, dando una chiara testimonianza della sua evoluzione. Daltra parte fu proprio con la “scuola poetica siciliana” che si cominciò a forgiare la nostra prima lingua letteraria, pur non dimenticando il rilevante contributo greco, arabo e di tutte le popolazioni con cui è venuto a contatto il popolo siciliano.
Qualche secolo più tardi, agli inizi dell’Ottocento, l’intellettuale Giulio Perticari giunse persino a contestare il primato cronologico della poesia provenzale attribuendo ai poeti della scuola siciliana il merito di aver adoperato una lingua “illustre” comune, sovraregionale, diffusa già in tutta l’Italia e derivata da una presunta lingua “romana intermedia” della cui esistenza nessuno è mai riuscito a dar prova. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, il Perticari sarebbe stato fuorviato, nel suo giudizio, dal fatto di aver letto le opere dei poeti siciliani in una forma diversa da quella autentica. In particolare, nella seconda metà dell'Ottocento, il filologo Giovanni Galvani, nell'esaminare la questione, constatò che la poesia italiana delle origini, compresa quella siciliana, era stata conservata attraverso dei codici medievali compilati da copisti toscani ed ipotizzò che, così come alcuni testi toscani trascritti da copisti medievali del nord Italia, erano stati settentrionalizzati, un processo analogo ma inverso avesse forse coinvolto la poesia siciliana, depurata dai copisti toscani dei suoi elementi tipicamente regionali. L’interpolazione dei componimenti siciliani da parte dei copisti, effettivamente riscontrabile in diverse trascrizioni, è stata purtroppo un’operazione che ha spesso danneggiato la musicalità della poesia siciliana delle origini, alterando l’impostazione della famosa “rima siciliana” (ancora adoperata nell’Ottocento dal Manzoni, nel Cinque maggio) e, comunque, non è sufficiente a togliere prestigio ed importanza alla lirica siciliana. Ne è prova il fatto che il dibattito sulla “sicilianità” della poesia della corte di Federico II e sulla vera natura della lingua poetica siciliana ha caratterizzato tutto l’Ottocento e parte del Novecento, coinvolgendo i migliori filologi in quella che ha rappresentato una delle più importanti questioni della storia della letteratura italiana, soprattutto per il ruolo decisivo che la poesia siciliana ha svolto nella nascita della nostra tradizione lirica.
È significativo al riguardo che, anche dopo la morte di Federico II, nel 1250, ed il tramonto del casato di Svevia, l’eredità della scuola poetica siciliana è stata raccolta in Toscana e a Bologna dai poeti siculo-toscani e dagli stilnovisti, delineando la linea maestra lungo la quale si è sviluppata la poesia italiana, partendo dall’area meridionale verso l’area centro-settentrionale.
Tornando, comunque, ai giorni nostri, una panoramica più generale sul fenomeno dialettale in Italia mette in evidenza il legame innegabile tra storia, tradizioni e dialetti, poiché le usanze linguistiche di ciascuna regione, a volte persino di ciascuna città, sono espressione immediata e diretta della cultura e soprattutto della personalità delle singole comunità locali. I dialetti, inoltre, rappresentano anche un importante strumento di evoluzione della lingua perché permettono un’interazione costante tra la lingua di ogni giorno, quotidiana e familiare, e la lingua letteraria, più elegante forse ma a volte troppo lontana dalla realtà che pretende di descrivere.
La lingua siciliana non è, infatti, soltanto espressione, ma tutta la vita, il carattere, la tradizione del popolo stesso. Oggi sta accadendo qualche cosa di curioso: il siciliano ha fatto il suo ingresso nel cinema e sui palcoscenici dei teatri, alla radio e alla televisione, mentre l’italiano si imbarbarisce per i troppi vocaboli esotici o di comoda opportunità. Ciò nonostante, è ormai un dato di fatto che i nostri giovani non conoscono il dialetto e si muovono nei quartieri popolari delle loro città come turisti in un paese straniero, ignari delle leggende raccontate dalle strade che percorrono ogni giorno. Per far fronte a questo fenomeno di devitalizzazione del dialetto è stato così proposto di introdurre nelle scuole l'insegnamento della storia regionale per spronare i giovani a riscoprire l'origine della propria cultura e delle proprie tradizioni, anche attraverso il dialetto. Un’idea che andrebbe valutata più seriamente perché, nonostante l’abbattimento delle frontiere, non si può essere cittadini del mondo senza essere prima consapevoli della propria identità. “Un popolo che non ha memoria non ha futuro”, scriveva Gesualdo Bufalino, e Ignazio Buttitta aggiungeva: “quando gli tolgono la lingua ricevuta dai padri diventa povero e servo ed è perso per sempre”.
Riappropriamoci, dunque, della nostra libertà linguistica facilitando la divulgazione e l’apprendimento della nostra lingua; così facendo contribuiremo a mantenere sempre vivo il desiderio della salvaguardia di questo preziosissimo patrimonio culturale e, forse, sentendo riecheggiare il siciliano, nella freschezza e nella vigoria di sempre, anche sul volto accigliato del sommo Dante spunterà un sorriso di piacere.
Musumeci Presidente Naz. Mis -
Docente Storia della Musica e Storia Contemporanea
Dip. Storico Università di Camerino

venerdì 18 settembre 2009

AD ANTONIO CANEPA E…

AD ANTONIO CANEPA E…
tri martiri di la libirtà scurdati di la storia

“La Sicilia a li siciliani” dicevi!
Nun c’è virità cchiù granni
gridu cchiù dispiratu ca si perdi
nni la notti di lu tempu, ‘ncatinatu
‘ntra lu civu di l’arma e lu ciriveddu
d’ogni veru figghiu sicilianu
o almenu di cu’ nasci cu lu cori
a manca, russu comu muluna
lu fruttu cchiù duci di stu paradisu
ca ‘nfernu vonnu fari addivintari.

E‘ veru tutti nascèmu cu lu cori
a manca ma sulu pri sbagghiu
picchì scurdatizzu lu Signuri
pigghiatu di milli pinzera scurdò
di tinciri di niuru la gritta di lu pettu
a tutti li latri e li sucasangu
a cu’ ammazza pri ‘nteressi e vinnitti
a cu’ s’appropria di priputenza
di terri e sustanzi ca nun ci appartennu.

A ttia però, cchiù russu li lu sangu
fici lu cori, l’arma e la raggiuni
li ginirusi vrazza sempri pronti
a dari, a luttari pri sta terra
dunni latti e meli aveva a scurriri
nna li ciuma persi nni la so’ panza
e ‘nveci di sangu si vunciaru
pri li tanti bastardi straneri e taliani
ca ‘nvidiusi di li nostri ricchizzi

li biddizzi, suli mari e ‘ntilligenza
d’un populu amurusu di vrazza e cori
di tutti l’agnuni nni pigghiaru
d’ogni strata, porta, celu e mari
e comu gaddi e gaddini cu forza
dintra li gaggi nni cacciaru
futtènnusi terra, libirtà, onuri…
ma non tutti s’arrassignaru
non tutti foru o sunnu ciriveddi di canigghia

canigghia ca leggia si spanni a lu ventu
e senza sapiri dunni jri
scancia volubbili li cantunera…
tu Antoniu, partigianu e prisidenti
di l’esercitu ca libbira vuleva sta terra’
‘nzemmula a li cumpagni di svintura
fustivu di chiddi ca misinu
panza cori, fantasia e amuri…
la raggia però ca mi sfunna lu pettu
è puru pri li bastardi guverni taliani

ca cu arti ancora picciridda mi ‘ngannaru
facennumi pri tant’anni annamurari
d’un favusu eroi e mai di tia…
c’avissi cantatu lu to’ ‘ncignu
e lu curaggiu, purtatu pedi e ciuri
a lu cippu di “Rannazzu” dunni a tradimentu
l’aggrissura sangu vippiru pri acqua
e comu ficiru cu Pippinu ‘Mpastatu
du voti v’ammazzaru facennuvi passari
pri briganti, ammucciannu virità a la genti.

Ma la munzìgnaria, rrina ca lu mari
spissu porta a galla, riti trasparenti
ca prima o poi lu suli sfunna…
doppu cchiù di 60 anni comu miraculu
grapìu li me’ occhi ‘ncatramati
nni lu ‘ngannu e pensu ca siddu vera
nun fussi la storia, nun s’avissiru pigghiatu
lu culu a mmuzzicuna p’ammuccialla
e tu nun ripusassi nni lu viali di li galantomi
allatu di Ancilu Muscu e Giuvanni Verga.
di Lina La Mattina

giovedì 17 settembre 2009

Bandiera dell'EVIS


Statuto Speciale per l 'Autonomia della Nazione siciliana

STATUTO DELLA REGIONE SICILIANAAPPROVATO CON R.D.L. 15 MAGGIO 1946, N.455ASSEMBLEA REGIONALEPRESIDENTE E GIUNTA REGIONALEFUNZIONI DELL'ASSEMBLEA REGIONALEFUNZIONI DEL PRESIDENTE E DELLA GIUNTA REGIONALEORGANI GIURISDIZIONALIPOLIZIAPATRIMONIO E FINANZE DISPOSIZIONI TRANSITORIE REGIO DECRETO 15.5.1946 N° 455 :
Approvazione dello Statuto della Regione Sicilia CONVERSIONE IN LEGGE COSTITUZIONALE dello Statuto della Regione Sicilia - 26 febbraio 1948
- Legge costituzionale n° 2 ART.1 La Sicilia, con le isole Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica e Pantelleria, è costituita in Regione autonoma, fornita di personalità giuridica, entro l' unità politica dello Stato italiano, sulla base dei principi democratici che ispirano la vita della Nazione.
La città di Palermo è il capoluogo della Regione
.Titolo GLI ORGANI DELLA REGIONEART.
2 Organi della Regione sono: l'Assemblea, la Giunta e il Presidente regionale. Il Presidente regionale e la Giunta costituiscono il Governo della Regione.Sezione IAssemblea Regionale
ART.3 L' Assemblea regionale è costituita di novanta Deputati eletti nella Regione a suffragio universale diretto e segreto, secondo la legge emanata dall' Assemblea regionale in base ai principi fissati dalla Costituente in materia di elezioni politiche. I Deputati rappresentano l'intera Regione e cessano di diritto dalla carica allo spirare del termine di quattro anni.La nuova Assemblea è convocata dal Presidente regionale entro tre mesi dalla detta scadenza.(Così modificato dalla legge costituzionale 12 aprile 1989, n° 3)
ART.4 L' Assemblea regionale elegge nel suo seno il Presidente, i due Vice Presidenti, i Segretari dell' Assemblea e le Commissioni permanenti, secondo le norme del suo regolamento interno, che contiene altresì le disposizioni circa l' esercizio delle funzioni spettanti all' Assemblea regionale.
ART.5 I Deputati, prima di essere ammessi all' esercizio delle loro funzioni, prestano nella Assemblea il giuramento di esercitarle col solo scopo del bene inseparabile dell' Italia e della Regione.
ART.6 I Deputati non sono sindacabili per i voti dati nell' Assemblea regionale e per le opinioni espresse nell' esercizio della loro funzione.
ART.7 I Deputati hanno il diritto di interpellanza, di interrogazione e di mozione in seno all' Assemblea.
ART.8 Il Commissario dello Stato di cui all' art.27 può proporre al Governo dello Stato lo scioglimenbto della Assemblea regionale per persistente violazione del presente Statuto. Il decreto di scioglimento deve essere preceduto dalla deliberazione delle Assemblee legislative dello Stato.L' ordinaria amministrazione della Regione è allora affidata ad una Commissione straordinaria di tre membri, nominata dal Governo nazionale su designazione delle stesse Assemblee legislative. Tale Commissione indice le nuove elezioni per l' Assemblea regionale nel termine di tre mesi(V.D.P.R. 5 agosto 1961, n° 784)Sezione IIPresidente regionale e Giunta regionale
ART.9 Il Presidente regionale e gli Assessori sono eletti dall' Assemblea regionale nella sua prima seduta e nel suo seno a maggioranza assoluta di voti segreti dei Deputati. La Giunta regionale è composta dal Presidente regionale e dagli Assessori. Questi sono preposti dal Presidente regionale ai singoli rami dell' Amministrazione.
ART.10 Il Presidente regionale, in caso di sua assenza od impedimento, è sostituito dall'Assessore da lui designato. Nel caso di dimissioni, incapacità o morte del Presidente regionale, il Presidente dell' Assemblea convocherà entro quindici giorni l' Assemblea per l' elezione del nuovo Presidente regionale.
Titolo IIFUNZIONI DEGLI ORGANI REGIONALI Sezione Funzioni dell' Assemblea regionale
ART.11 L' Assemblea regionale è convocata dal suo Presidente in sessione ordinaria nella prima settimana di ogni bimestre e, straordinariamente, a richiesta del Governo regionale, o di almeno venti Deputati.
ART.12 L' iniziativa delle leggi regionali spetta al Governo ed ai Deputati regionali.I progetti di legge sono elaborati dalle Commissioni dell' Assemblea regionale con la partecipazione della Rappresentanza degli interessi professionali e degli organi tecnici regionali. I regolamenti per l' esecuzione delle leggi formate dall' Assemblea regionale sono emanati dal Governo regionale.
ART.13 Le leggi approvate dall' Assemblea regionale ed i regolamenti emanati dal Governo regionale non sono perfetti, se mancanti della firma del Presidente regionale e degli Assessori competenti per materia.Sono promulgati dal Presidente regionale decorsi i termini di cui all' art. 29, comma 2° e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Regione. Entrano in vigore nella Regione quindici giorni dopo la pubblicazione, salvo diversa disposizione, compresa nella singola legge o nel singolo regolamento.
ART.14 L' assemblea, nell' ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva sulle seguenti materie: a) agricoltura e foreste;b) bonifica;c) usi civili;d) industria e commercioe) incremento della produzione agricola ed industriale; valorizzazione, distribuzione, difesa dei prodotti agricoli ed industriali e delle attività commerciali;f) urbanistica;g) lavori pubblici, eccettuate le grandi opere pubbliche di interesse prevalentemente nazionale;h) miniere, cave, torbiere, saline;i) acque pubbliche, in quanto non siano oggetto di opere pubbliche d'interesse nazionale;l) pesca e caccia;m) pubblica beneficienza ed opere pie;n) turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche;o) regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative;p) ordinamento degli uffici e degli enti regionali;q) stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione, in ogni caso non inferiore a quello del personale dello Stato;r) istruzione elementare, musei, biblioteche, accademie;s) espropriazione per pubblica utilità.
ART.15 Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell' ambito della Regione siciliana.L' ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria. Nel quadro di tali principi generali spetta alla Regione la legislazione esclusiva e l' esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali.
ART.16 L' ordinamento amministrativo di cui all' articolo precedente sarà regolato, sulla base dei principi stabiliti dal presente Statuto, dalla prima Assemblea regionale.
ART.17 Entro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato, l' Assemblea regionale può, al fine di soddisfare alle condizioni particolari ed agli interessi propri della Regione, emanare leggi, anche relative all' organizzazione dei servizi, sopra le seguenti materie concernenti la Regione:a) comunicazione e trasporti regionali di qualsiasi genere;b) igiene e sanità pubblica;c) assistenza sanitaria;d) istruzione media e universitaria;e) disciplina del credito, delle assicurazioni e del risparmio;f) legislazione sociale: rapporti di lavoro, previdenza ed assistenza sociale, osservando i minimi stabiliti dalle leggi dello Statog) annona;h) assunzione di pubblici servizi;i) tutte le altre materie che implicano servizi di prevalente interesse regionale.
ART.18 L' Assemblea regionale può emettere voti, formulare progetti sulle materie di competenza degli organi dello Stato che possano interessare la Regione, e presentarli alle Assemblee legislative dello Stato.ART.
19 L' Assemblea regionale, non più tardi del mese di gennaio, approva il bilancio della Regione per il prossimo nuovo esercizio, predisposto dalla Giunta regionale. L' esercizio finanziario ha la stessa decorrenza di quello dello Stato.All' approvazione della stessa Assemblea è pure sottoposto il rendiconto generale della Regione.Sezione IIFunzioni del Presidente e della Giunta regionale
ART.20 Il Presidente e gli Assessori regionali, oltre alle funzioni esercitate in base agli artt.12; 13 comma 1 e 2; 19 comma 1; svolgono nella Regione le funzioni esecutive ed amministrative concernenti le materie di cui agli articoli 14, 15 e 17. Sulle altre non comprese negli artt. 14, 15 e 17 svolgono una attività amministrativa secondo le direttive del Governo dello Stato.Essi sono responsabili di tutte le loro funzioni, rispettivamente, di fronte all' Assemblea regionale ed al Governo dello Stato.
ART.21 Il Presidente è Capo del Governo regionale e rappresenta la Regione.Egli rappresenta altresì nella Regione il Governo dello Stato, che può tuttavia inviare temporaneamente propri commissari per l' esplicazione di singole funzioni statali.Col rango di Ministro partecipa al Consiglio dei Ministri, con voto deliberativo nelle materie che interessano la Regione.
ART.22 La Regione ha diritto di partecipare con un suo rappresentante, nominato dal Governo regionale, alla formazione delle tariffe ferroviarie dello Stato ed alla istituzione e regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti, terrestri, marittimi ed aerei, che possano comunque interessare la Regione.
Titolo IIIORGANI GIURISDIZIONALI
ART. 23 Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione.Le sezioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti svolgerammo altresì le funzioni, rispettivamente, consultive e di controllo amministrativo e contabile.I magistrati della Corte dei Conti sono nominati, di accordo, dal Governo dello Stato e della Regione.I ricorsi amministrativi, avanzati in linea straordinaria, contro atti amministrativi regionali, saranno decisi dal Presidente regionale, sentite le sezioni regionali del Consiglio di Stato.
ART.24 E' istituita in Roma un' Alta Corte con sei membri e due supplenti, oltre il Presidente ed il Procuratore generale, nominati in pari numero dalle Assemblee legislative dello Stato e della Regione, e scelti fra persone di speciale competenza in materia giuridica.Il Presidente ed il Procuratore generale sono nominati dalla stessa Alta Corte.L' onere finanziario riguardante l' Alta Corte è ripartito equamente fra lo Stato e la Regione.
ART.25 L' Alta Corte giudica sulla costituzionalità:a) delle leggi emanate dall’Assemblea regionale;b) delle leggi e dei regolamenti emanati dallo Stato, rispetto al presente Statuto ed ai fini della efficacia dei medesimi entro la Regione.ART.26 L' Alta Corte giudica pure dei reati compiuti dal Presidente e dagli Assessori regionali nell' esercizio delle funzioni di cui al presente Statuto, ed accusati dall' Assemblea regionale.(Dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale - sentenza n.6 del 1970)
ART.27 Un Commissario, nominato dal Governo dello Stato, promuove presso l' Alta Corte i giudizi di cui agli artt.25 e 26, e, in questo ultimo caso, anche in mancanza di accusa da parte dell' Assemblea Regionale.
ART.28 Le leggi dell' Assemblea regionale sono inviate entro tre giorni dall' approvazione al Commissario dello Stato, che entro i successivi cinque giorni può impugnarle davanti l' Alta Corte.ART
.29 L' Alta Corte decide sulle impugnazioni entro venti giorni della ricevuta delle medesime.Decorsi otto giorni, senza che al Presidente regionale sia pervenuta copia dell' impugnazione, ovvero scorsi trenta giorni dall' impugnazione senza che al Presidente regionale sia pervenuta da parte dell' Alta Corte sentenza di annullamento, le leggi sono promulgate ed immediatamente pubblicate nella "Gazzetta Ufficiale della Regione".
ART.30 Il Presidente regionale, anche su voto dell' Assemblea regionale, ed il Commissario di cui all' art.27, possono impugnare per incostituzionalità davanti all' Alta Corte le leggi ed i regolamenti dello Stato, entro trenta giorni dalla pubblicazione.
Titolo IVPOLIZIA
ART. 31 Al mantenimento dell' ordine pubblico provvede il Presidente regionale a mezzo della polizia dello Stato, la quale nella Regione dipende disciplinarmente, per l' impiego e l' utilizzazione, dal governo regionale. Il Presidente della regione può chiedere l' impiego delle forze armate dello Stato.Tuttavia il Governo dello Stato potrà assumere la direzione dei servizi di pubblica sicurezza, a richiesta del Governo regionale, congiuntamente al Presidente dell' Assemblea, e, in casi eccezionali, di propria iniziativa, quando siano compromessi l' interesse generale dello Stato e la sua sicurezza.Il Presidente ha anche il diritto di proporre, con richiesta motivata al Governo Centrale, la rimozione o il trasferimento fuori dell' Isola dei funzionari di polizia.Il governo regionale può organizzare corpi speciali di polizia amministrativa per la tutela di particolari servizi ed interessi.
Titolo VPATRIMONIO E FINANZE
ART. 32 I beni di demanio dello Stato, comprese le acque pubbliche esistenti nella Regione, sono assegnati alla Regione eccetto quelli che interessano la difesa dello Stato o servizi di carattere nazionale.
ART.33 Sono altresì assegnati alla Regione e costituiscono il suo patrimonio, i beni dello Stato oggi esistenti nel territorio della Regione e che non sono della specie di quelli indicati nell' articolo precedente.Fanno parte del patrimonio indisponibile della Regione:-- le foreste, che a norma delle leggi in materia costituiscono oggi il demanio forestale dello Stato nella Regione-- le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo;-- le cose d' interesse storico, archeologico, paleontologico ed artistico, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale;-- gli edifici destinati a sede di uffici pubblici della Regione coi loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio della Regione.
ART.34 I beni immobili che si trovano nella Regione e che non sono in proprietà di alcuno, spettano al patrimonio della Regione.
ART.35 Gli impegni già assunti dallo Stato verso gli enti regionali sono mantenuti con adeguamento al valore della moneta, all' epoca del pagamento.
ART.36 Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesimaSono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto.
ART.37 Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori dal territorio della Regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell' accertamento dei redditi viene determinata la quota di reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi.L' imposta relativa a detta quota compete alla Regione ed è riscossa dagli organi di riscossione della medesima.
ART.38 Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nell' esecuzione di lavori pubblici.Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto alla media nazionale.Si procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo.
ART.39 Il regime doganale della Regione è di esclusiva competenza dello Stato.Le tariffe doganali, per quanto interessa la Regione e relativamente ai limiti massimi, saranno stabilite previa consultazione del Governo regionale.Sono esenti da ogni dazio doganale le macchine e gli arnesi di lavoro agricolo, nonché il macchinario attinente alla trasformazione industriale dei prodotti agricoli della Regione.
ART.40 Le disposizioni generali sul controllo valutario emanate dallo Stato hanno vigore anche nella Regione.E' però istituita presso il Banco di Sicilia, finché permane il regime vincolistico sulle valute, una camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della Regione le valute estere provenienti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo dei noli di navi iscritte nei compartimenti siciliani.
ART.41 Il Governo della Regione ha facoltà di emettere prestiti interni.
DISPOSIZIONI TRANSITORIE
ART.42 L' Alto Commissario e la Consulta regionale della Sicilia, compresi i tecnici, restano in carica con le attuali funzioni fino alla prima elezione dell' Assemblea regionale, che avrà luogo a cura del Governo dello Stato, entro tre mesi dalla approvazione del presente Statuto, in base alla emananda legge elettorale politica dello Stato.Le circoscrizioni dei collegi elettorali sono però determinate in numero di nove, in corrispondenza alle attuali circoscrizioni provinciali, e ripartendo il numero dei Deputati in base alla popolazione di ogni circoscrizione.
ART.43 Una Commissione paritetica di quattro membri nominati dall' Alto Commissario della Sicilia e dal Governo dello Stato, determinerà le norme transitorie relative al passaggio degli uffici e del personale dallo Stato alla Regione, nonché le norme per l' attuazione del presente Statuto.Gazzetta Ufficiale 10 giugno 1946, n°1333.REGIO DECRETO LEGISLATIVO 15 MAGGIO 1946 N° 455 APPROVAZIONE DELLO STATUTO DELLA REGIONE SICILIANA UMBERTO II RE D’ITALIA Visto il decreto legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n.151;
Visto il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n.98;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri;Abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Articolo unico. E' approvato, nel testo allegato, firmato, d' ordine Nostro, dal Presidente del Consiglio dei Ministri, lo Statuto della Regione siciliana.Lo Statuto predetto sarà sottoposto all' Assemblea Costituente, per essere coordinato con la nuova Costituzione dello Stato.
Ordiniamo che il presente decreto munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d' Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare come legge dello Stato.
Dato a Roma, addì 15 Maggio 1946.
UMBERTOmDE GASPERI - NENNI - CIANCA - ROMITA - TOGLIATTI - SCOCCIMARRO - CORBINO - BROSIO - DE COURTEN - CEVOLOTTO - MOLE’ - CATTANI - GULLO - LOMBARDI - SCELBA - GRONCHI - BARBARESCHI - BRACCI - GASPAROTTO.
Visto, il Guardasigilli: TOGLIATTI. Registrato con riserva alla Corte dei Conti, addì 9 giugno 1946. Atti del Governo, registro n° 10, foglio n° 224 - Frasca .
LEGGE COSTITUZIONALE 26 FEBBRAIO 1948 N° 2 CONVERSIONE IN LEGGE COSTITUZIONALE DELLO STATUTO DELLA REGIONE SICILIANA IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Visto il primo comma della XVII disposizione transitoria e l' art. 116 della Costituzione:PROMULGA la seguente legge costituzionale, approvata dall' Assemblea Costituente il 31 gennaio 1948:ART.1 Lo Statuto della Regione siciliana, approvato col decreto legislativo 15 maggio 1946, n.455, fa parte delle leggi costituzionali della Repubblica ai sensi e per gli effetti dell' art. 116 della Costituzione.Ferma restando la procedura di revisione preveduta dalla Costituzione, le modifiche ritenute necessarie dallo Stato o dalla Regione saranno, non oltre due anni dalla entrata in vigore della presente legge, approvate dal Parlamento nazionale con legge ordinaria, udita l' Assemblea regionale della Sicilia.ART.2 La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica Italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.Data a Roma, addì 26 febbraio 1948.DE NICOLA DE GASPERIVisto, il Guardasigilli: GRASSI (Gazzetta Ufficiale della R.I. n.58 del 9 marzo 1948).Convertito in legge costituzionale il 26 febbraio 1948.