Alla Corte di Federico II LA LINGUA SICILIANA Anticipò di un secolo il Dolce Stilnovo
Negli ultimi tempi, si parla spesso dell’importanza dei dialetti locali e dell’opportunità di salvaguardare la tradizione linguistica delle varie regioni italiane, attualmente a rischio di “estinzione”.
L’indebolimento del dialetto è dipeso senz’altro da una forma di snobismo manifestata dalle classi più agiate nei confronti dell’abitudine del “popolo” di parlare attraverso espressioni dialettali che, come molti forse non sanno, hanno alle origini una lunga tradizione legata alla storia delle realtà locali. Eppure, tra dialetto e lingua esiste una vera e propria affinità genetica, come del resto tra gli stessi dialetti, legati tra di loro da una parentela che, in Italia, riconduce veneziano, milanese, romanesco, fiorentino, siciliano, ecc. tutti ad un nobile antenato comune: il latino.
Malgrado ciò, si è diffusa la strana convinzione che parlare in dialetto sia poco raffinato, poco prestigioso e persino segno di ignoranza; una convinzione, questa, che ha provocato, sulla base di un giudizio di ordine sociale assolutamente discutibile, una sorta di graduatoria tra i dialetti, secondo la quale, per esempio, il romanesco è “simpatico”, il fiorentino “adorabile”, il siciliano “orribile”.
Se ci si ferma un attimo a pensare, però, non si può non notare che mentre nel nominare gli altri dialetti si fa di solito riferimento alle città di origine (veneziano, milanese, fiorentino, ecc...), si parla invece genericamente di siciliano e non di palermitano, catanese, messinese, se non per indicare il diverso accento che caratterizza il modo di parlare nelle varie province siciliane.
Questa curiosità trova forse la sua spiegazione nel fatto che il siciliano, prima ancora di essere un dialetto regionale, è stato ed è una vera e propria lingua, forse la più importante delle lingue regionali, considerato che è proprio dalla lingua siciliana del Duecento che è nata, alla corte di Federico II, la lingua letteraria italiana.
La storia della lingua è, infatti, profondamente legata alla storia dei dialetti, tenendo presente che, in realtà, non è neanche possibile parlare di dialetto se non in riferimento ad un ben definito e radicato concetto di lingua comune, dotata di maggiore prestigio e di maggiore considerazione sociale .Dal Duecento al Quattrocento la scrittura in Italia rifletteva ancora gli usi linguistici locali che, anche se attenuati dall’applicazione del latino, prima, e del toscano, dopo, hanno tutti comunque contribuito alla nascita del cosiddetto volgare, un idioma che, dopo un uso inizialmente solo occasionale, venne presto adottato come lingua letteraria nell'ambito della poesia lirica, conquistandosi così una sempre maggiore considerazione tra gli autori del tempo. In questo contesto culturale, nel XIII secolo si sviluppò nell'Italia meridionale, nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, la prima scuola poetica italiana, dettaappunto “siciliana” perché il fulcro del regno di questo interessante imperatore fu proprio la corte di Sicilia, come ricorda Dante nel De vulgari eloquentia.
Quando ebbe inizio l’opera della scuola siciliana, molti poeti italiani imitavano la letteratura provenzale in lingua d’oc, adoperando la stessa lingua usata dai trovatori per celebrare il nuovo concetto dell'amore “intellettualizzato”. Anche i poeti siciliani, come i connazionali, presero ispirazione dalla poesia provenzale, solo che, con un'intuizione geniale, sostituirono la lingua straniera con un volgare italiano, il volgare di Sicilia: non uno dei tanti idiomi del meridione continentale, ma il siciliano insulare, probabilmente influenzati anche dal fatto che fu proprio un siciliano l'iniziatore della lirica sveva, Giacomo da Lentini, inventore di una fortunata forma metrica, il sonetto, sopravvissuto al passare dei secoli. E, considerato che lo stesso Federico II poetò in quella lingua pur non essendo siciliano di nascita, così come altri poeti della scuola siciliana, è ragionevole pensare che la scelta del siciliano ebbe valore propriamente formale, come dimostrerebbe anche lo stile altamente raffinato del volgare usato per la poesia siciliana.
Anche Dante nel De vulguri eloquentia, primo vero trattato sulla lingua e sulla poesia volgare, nel tentativo di individuare il volgare illustre, celebrò la superiorità del siciliano, ovviamente non di quello popolare ma di quello di elevato livello formale adoperato dai poeti della corte di Federico II e nobilitato proprio attraverso il suo impiego nell’ambito della letteratura. Del resto Dante precisò che i rimatori del Duecento considerarono il volgare siciliano come loro lingua-base.
Per quasi due secoli (XI e XII) il siciliano fu passibile di continui miglioramenti: Ciullo d’Alcamo nel “Contrasto Amoroso” scrisse “…per te non aio abbento…”, dando una chiara testimonianza della sua evoluzione. Daltra parte fu proprio con la “scuola poetica siciliana” che si cominciò a forgiare la nostra prima lingua letteraria, pur non dimenticando il rilevante contributo greco, arabo e di tutte le popolazioni con cui è venuto a contatto il popolo siciliano.
Qualche secolo più tardi, agli inizi dell’Ottocento, l’intellettuale Giulio Perticari giunse persino a contestare il primato cronologico della poesia provenzale attribuendo ai poeti della scuola siciliana il merito di aver adoperato una lingua “illustre” comune, sovraregionale, diffusa già in tutta l’Italia e derivata da una presunta lingua “romana intermedia” della cui esistenza nessuno è mai riuscito a dar prova. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, il Perticari sarebbe stato fuorviato, nel suo giudizio, dal fatto di aver letto le opere dei poeti siciliani in una forma diversa da quella autentica. In particolare, nella seconda metà dell'Ottocento, il filologo Giovanni Galvani, nell'esaminare la questione, constatò che la poesia italiana delle origini, compresa quella siciliana, era stata conservata attraverso dei codici medievali compilati da copisti toscani ed ipotizzò che, così come alcuni testi toscani trascritti da copisti medievali del nord Italia, erano stati settentrionalizzati, un processo analogo ma inverso avesse forse coinvolto la poesia siciliana, depurata dai copisti toscani dei suoi elementi tipicamente regionali. L’interpolazione dei componimenti siciliani da parte dei copisti, effettivamente riscontrabile in diverse trascrizioni, è stata purtroppo un’operazione che ha spesso danneggiato la musicalità della poesia siciliana delle origini, alterando l’impostazione della famosa “rima siciliana” (ancora adoperata nell’Ottocento dal Manzoni, nel Cinque maggio) e, comunque, non è sufficiente a togliere prestigio ed importanza alla lirica siciliana. Ne è prova il fatto che il dibattito sulla “sicilianità” della poesia della corte di Federico II e sulla vera natura della lingua poetica siciliana ha caratterizzato tutto l’Ottocento e parte del Novecento, coinvolgendo i migliori filologi in quella che ha rappresentato una delle più importanti questioni della storia della letteratura italiana, soprattutto per il ruolo decisivo che la poesia siciliana ha svolto nella nascita della nostra tradizione lirica.
È significativo al riguardo che, anche dopo la morte di Federico II, nel 1250, ed il tramonto del casato di Svevia, l’eredità della scuola poetica siciliana è stata raccolta in Toscana e a Bologna dai poeti siculo-toscani e dagli stilnovisti, delineando la linea maestra lungo la quale si è sviluppata la poesia italiana, partendo dall’area meridionale verso l’area centro-settentrionale.
Tornando, comunque, ai giorni nostri, una panoramica più generale sul fenomeno dialettale in Italia mette in evidenza il legame innegabile tra storia, tradizioni e dialetti, poiché le usanze linguistiche di ciascuna regione, a volte persino di ciascuna città, sono espressione immediata e diretta della cultura e soprattutto della personalità delle singole comunità locali. I dialetti, inoltre, rappresentano anche un importante strumento di evoluzione della lingua perché permettono un’interazione costante tra la lingua di ogni giorno, quotidiana e familiare, e la lingua letteraria, più elegante forse ma a volte troppo lontana dalla realtà che pretende di descrivere.
La lingua siciliana non è, infatti, soltanto espressione, ma tutta la vita, il carattere, la tradizione del popolo stesso. Oggi sta accadendo qualche cosa di curioso: il siciliano ha fatto il suo ingresso nel cinema e sui palcoscenici dei teatri, alla radio e alla televisione, mentre l’italiano si imbarbarisce per i troppi vocaboli esotici o di comoda opportunità. Ciò nonostante, è ormai un dato di fatto che i nostri giovani non conoscono il dialetto e si muovono nei quartieri popolari delle loro città come turisti in un paese straniero, ignari delle leggende raccontate dalle strade che percorrono ogni giorno. Per far fronte a questo fenomeno di devitalizzazione del dialetto è stato così proposto di introdurre nelle scuole l'insegnamento della storia regionale per spronare i giovani a riscoprire l'origine della propria cultura e delle proprie tradizioni, anche attraverso il dialetto. Un’idea che andrebbe valutata più seriamente perché, nonostante l’abbattimento delle frontiere, non si può essere cittadini del mondo senza essere prima consapevoli della propria identità. “Un popolo che non ha memoria non ha futuro”, scriveva Gesualdo Bufalino, e Ignazio Buttitta aggiungeva: “quando gli tolgono la lingua ricevuta dai padri diventa povero e servo ed è perso per sempre”.
Riappropriamoci, dunque, della nostra libertà linguistica facilitando la divulgazione e l’apprendimento della nostra lingua; così facendo contribuiremo a mantenere sempre vivo il desiderio della salvaguardia di questo preziosissimo patrimonio culturale e, forse, sentendo riecheggiare il siciliano, nella freschezza e nella vigoria di sempre, anche sul volto accigliato del sommo Dante spunterà un sorriso di piacere.
Musumeci Presidente Naz. Mis -
Docente Storia della Musica e Storia Contemporanea
Dip. Storico Università di Camerino
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