domenica 30 ottobre 2011

Piero Grasso: “Le candidature politiche servono per ottenere l’immunità”

”Oggi la candidatura politica serve da copertura per avere l’immunità parlamentare: è un processo che si è capovolto”. Il procuratore capo della Direzione nazionale antimafia Piero Grasso non usa mezzi termini: “Non tocca alla magistratura fare le liste o curare operazioni di cosiddetta ‘bonifica politica’ – spiega a Palermo durante un incontro su giustizia e pentitismo – però i cittadini che votano candidati discutibili puntano a un vantaggio personale, fanno parte del meccanismo del voto di scambio”.

Grasso difende il valore dell’informazione contro la legge ‘Bavaglio‘, ma anche la necessità di salvaguardare la privacy: “Il magistrato ha un grandissimo potere, entra nelle vite degli altri, scava nella privacy: è un potere che va usato con cautela, che viene dato in funzione di una responsabilità precisa e non per arrivare a una gogna mediatica, ha detto il procuratore. “Bisogna evitare – ha aggiunto – qualsiasi bavaglio dell’informazione, ma occorrono delle regole. Non credo sia giusto né rilevante che tutti coloro che conoscono l’indagato debbano sapere anche i fatti più intimi che lo riguardano. La privacy dei cittadini va violata solo quando l’indagine dà effetti positivi per l’indagato. Il fine della giustizia è quello di fare processi e arrivare alla verità”.

Grasso interviene anche sulla recente scarcerazione di sei ergastolani accusati della strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta: ”Tendere all’accertamento della verità è un valore irrinunciabile, dovrebbe essere un imperativo categorico da seguire anche dopo tanti anni – ha detto il procuratore – La sospensione della carcerazione dei condannati in via definitiva segue la giurisprudenza della Cassazione che prevede non si possa fare un giudizio di revisione se prima non diventa definitivo l’accertamento dei fatti che portano alla revisione. E’ una posizione estremamente garantista che però in relazione alle cose accertate è corretta, del resto sono state scarcerate persone che hanno scontato parecchi anni di carcere e taluni di questi, pare, anche ingiustamente”.

E sulle dichiarazioni del collaboratore Stefano Lo Verso, il procuratore ha dichiarato: “I rapporti tra mafia e politica non sono mai cessati, non mi pare nulla di nuovo. Lo Verso parla di alcuni anni fa, sono solo le indagini che possono scoprire se si tratta di rapporti ‘indecenti’. Ricordo ancora i pizzini di Bernardo Provenzano, dove qualcuno gli chiedeva indicazioni di voto; purtroppo, non abbiamo potuto trovare la risposta”. ”E’ importante scoprire laverità – ha aggiunto Grasso – non solo sotto il profilo degli esecutori materiali. Da anni chiediamo a tutta la società di fare chiarezza, ‘chi sa qualcosa, parli’. Il problema è riuscire da un punto di vista giudiziario a trovare anche le prove”.

“Speriamo – ha aggiunto – che qualcuno abbia una resipiscenza per fornire qualche ricordo. Ho avuto il privilegio di sentire per primo Gaspare Spatuzza in questa sua manifestazione di resipiscenza. Anche lui ci ha messo tanti anni. Se l’avesse fatto subito dopo la cattura, come aveva intenzione di fare in un primo momento, forse sarebbe cambiata tutta la storia del processo e della mafia. Purtroppo ci sono tempi che non dipendono dalla magistratura, ma dalla possibilità di accertare queste realtà, partendo da alcuni elementi, seppure indiziari”.

“Se qualche mafioso si scrollasse di dosso questa regola dell’omertà – ha concluso Grasso – forse potremmo ricominciare tante indagini. Parecchi omicidi eccellenti sono rimasti coperti dal mistero: penso agli omicidi La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa. Il monito ‘chi sa parli’, che ripetiamo da anni, è rivolto a tutta la società”.

fonte: la Repubblica

sabato 29 ottobre 2011

Nell'inferno del carcere di Pianosa

Dal 18 luglio 1994 e fino a quarantotto ore fa è stato uno degli ergastolani accusati della strage di via d'Amelio. Ha attraversato l'inferno di Pianosa, che lui chiama la discoteca perché "si ballava dalla mattina alla sera per le sevizie", è rimasto in isolamento al 41 bis, ha perso il suo lavoro al Comune come spazzino, portando addosso il marchio di essere uno dei mafiosi che ha preparato l'attentato al giudice Borsellino. Gaetano Murana, scarcerato con altri cinque, compie 54 anni il 4 novembre: il suo primo compleanno da uomo libero dopo 18 anni in cella. Si racconta nella sua prima intervista. Ha il viso scavato, adesso porta gli occhiali e ha le mani gonfie e rosse di chi ha maneggiato tanti detersivi per tirare a lucido le troppe celle in cui ha vissuto. Al polso l'unico "souvenir" che gli ricorda gli anni trascorsi in galera: un orologio Swatch di plastica, l'unico ammesso.
Da dove cominciamo signor Murana, dall'inizio o dalla fine?
"La conclusione dei miei giorni in carcere è assolutamente la parte più bella. A Voghera ho lasciato l'infinita tristezza per una falsa verità che non mi apparteneva e una pentola con il sugo di carne fatto con le mie mani, che, senza offesa, è uno dei migliori che si siano mai assaggiati nelle celle italiane. E io di carceri ne ho girate ben 8 in diciotto anni. È andata così: stavo arriminannu il sugo per non farlo appigghiare quando un agente è entrato nella mia cella di Voghera. Mi ha portato

in infermeria dal capoposto che mi ha chiesto quale fosse la mia residenza. Lì ho capito e mentre già piangevo è stato il capoposto a dirmi: "Lei è liberante". A quel punto i miei compagni mi hanno aiutato a fare le valigie. Anche loro piangevano. I vestiti, le scarpe, le tute da lavoro li ho donati ai più bisognosi. Quando la porta carraia si è chiusa alle mie spalle ho cominciato a tremare. Mi sono guardato attorno, ero confuso. Mi sono seduto su un gradino e ho cominciato a piangere tutte le mie lacrime".
Andiamo indietro di 18 anni, al giorno dell'arresto. Come andò?
"Ancora ci penso e in certi momenti sorrido amaramente. Bisogna partire dal giorno prima per capire. Era il 17 luglio. Stavo guardando la finale Italia-Brasile del campionato mondiale di calcio Usa 94, abbracciato a mia moglie. Eravamo sposini. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo l'annuncio che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del tg diceva che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. Conosco Scarantino, abitava a 50 metri da casa mia. La mattina seguente sono stato arrestato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino"".
Lei è stato accusato di avere "bonificato e sorvegliato" il luogo dell'attentato a Borsellino. Ed è finito al 41 bis, il carcere duro. Come ha resistito?
"Pianosa è quello che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici dentro alle minestre, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto, adesso, che negli anni a tutte quelle botte mi ero quasi abituato".
Nel "Borsellino I" lei è stato assolto, e dal 2002 al 2005 è tornato in libertà. In appello poi è stato condannato all'ergastolo, pena confermata in Cassazione. Libertà a parte, cos'altro ha perduto in questi anni?
"La crescita di mio figlio: l'ho rivisto e l'ho potuto toccare dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Poi ho perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto salutare. E ho perso il lavoro. Adesso pretendo di nuovo il mio impiego al Comune. Credo mi spetti, no?".
C'è stato qualcosa di buono, nonostante tutto, nella sua lunga carcerazione?
"Nel 2009, finalmente, dopo una lunga battaglia con l'avvocato Rosalba Di Gregorio, ho ottenuto la revoca del carcere duro. Ho potuto riprendere gli studi. Mi sono iscritto a ragioneria: andrò al terzo anno. Poi ho approfondito la mia fede. Ho letto e riletto i libri su San Francesco. Sono diventato anche un uomo più riflessivo e vorrei dedicarmi al volontariato".
Qual è il primo desiderio esaudito da uomo libero?
"Mi sono fatto preparare un piatto di pasta con le sarde, la mia preferita".
Se avesse Scarantino davanti cosa gli direbbe?
"Nulla, lo saluterei. È una vittima come me. Credo che le sue false dichiarazioni sono il frutto dei terribili anni a Pianosa. Vorrei solo chiedergli una cosa: "Chi ti ha detto di fare il mio nome?"
fonte: la Repubblica

venerdì 28 ottobre 2011

"Quell'autobomba rubata a spinta" il racconto del pentito Spatuzza

"Io so di via D'Amelio perché l'auto imbottita di tritolo l'ho rubata io". Comincia così la narrazione con cui Gaspare Spatuzza riscrive la strage di Borsellino e della sua scorta e scagiona otto palermitani condannati all'ergastolo per quel reato. Una testimonianza ricca di dettagli, compresa la descrizione di un misterioso cinquantenne, "non di Cosa Nostra", che aspettava la Fiat 126 nel garage dove fu trasformata in autobomba: un uomo che potrebbe essere il collegamento con i servizi deviati.
Tutto cominciò con una soffiata. Ancora oggi non si sa esattamente da dove è venuta. Forse dal Sisde, il servizio segreto civile che l’ha trasmessa alla polizia di Palermo. O forse dalla polizia di Palermo, che l’ha trasmessa al Sisde. Era una soffiata fasulla. Sull’auto che aveva fatto saltare in aria Paolo Borsellino e sui mafiosi che l’avevano rubata. Dopo quasi vent’anni, è arrivato però Gaspare Spatuzza che ha riscritto la storia delle stragi siciliane. Lo racconta lui come hanno ammazzato, il 19 luglio del 1992, l’erede di Falcone. Cancellando con le sue confessioni indagini pilotate e processi passati al vaglio della Cassazione, indicando depistaggi e piste ingannevoli. Un romanzo nero riscontrato punto dopo punto negli ultimi due anni.
In una drammatica narrazione Gaspare Spatuzza rivela come i boss – e probabilmente qualcun altro – prepararono ed eseguirono il massacro.

"Io so di via D’Amelio perché l’auto imbottita di tritolo l’ho rubata io…". Comincia così il primo interrogatorio – il 26 giugno del 2008 – dell’uomo d’onore di Brancaccio con il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. Repubblica è venuta in possesso delle 1138 pagine della richiesta di revisione con la quale la magistratura di Caltanissetta ha chiesto la "sospensione della pena" per otto imputati ingiustamente condannati all’ergastolo, otto palermitani trascinati nel gorgo delle investigazioni da falsi collaboratori di giustizia e da un’inchiesta poliziesca che oggi è sotto accusa. Se quasi vent’anni fa, poliziotti e pubblici ministeri si erano fidati (dopo quella soffiata "inquietante", come la definiscono i procuratori siciliani) del picciotto di borgata Vincenzo Scarantino che li ha portati verso il nulla, adesso Gaspare Spatuzza spiega come andarono veramente le cose. E parla soprattutto di sé. Di quando lui – e non Scarantino, il bugiardo - rubò quella Fiat 126 che poi servì per l’attentato. Di come la portò in giro per Palermo. Fra garage e magazzini, dalla foce del fiume Oreto fin sotto la casa della madre del magistrato.

Tutte le falsità del pentito Scarantino si erano concentrate proprio sul furto di quella 126. Ecco la nuova versione di Gaspare Spatuzza. Con un disegno di suo pugno del luogo dove rubò l’auto. Con tutte le foto del percorso dell’utilitaria attraverso Palermo: dal box dove fu custodita al box dove fu imbottita di esplosivo.
Parla Gaspare Spatuzza: "Io fui incaricato di un furto di una Fiat 126 da Fifetto Cannella, per ordine del boss Giuseppe Graviano. In quel momento ho pensato subito al giudice Rocco Chinnici, anche lui saltò su una 126... ma non sapevo ancora a cosa mi stavo prestando... L’ho rubata io insieme a Vittorio Tutino, nella notte fra l’8 e il 9 luglio, dieci giorni prima della strage. Poi, l’ho tenuta in diversi magazzini".

Il pentito racconta come preparano la strage, giorno dopo giorno: "Cannella, mi disse che avrei dovuto rubare proprio una 126. Era prima di mezzanotte. L’abbiamo trovata in una stradina che collega via Oreto Nuova con via Fichi d’India… io rimango in macchina… vedendo che lui, il Tutino, aveva perso del tempo… cerco di andare a vedere cosa stava combinando… quindi scendo dalla macchina e gli dico: ‘Ma che fai?’… e lui mi dice: ‘Mi viene difficile a rompere il blocca sterzo’… rimango lì con lui che poi è riuscito a romperlo ma non ce la facciamo a metterla in moto perché aveva rotto tutti i fili, quindi decidiamo di portarla via a spinta".

L’auto che ucciderà il procuratore Borsellino, dieci notti prima era una carcassa che neanche partiva.
Ricorda ancora Spatuzza: "La macchina era sul rossiccio e tra l’amaranto e il sangue di bue… comunque era di un colore rosso spento… quindi attraversiamo verso Brancaccio e la portiamo in un magazzino di Fondo Schifano. Percorriamo via Fichi d’India, San Ciro, via San Gaetano fino al capannone dove io avevo già iniziato la ‘macinatura’ dell’esplosivo che era nascosto in alcuni fusti di metallo". Poi Spatuzza e Tutino avvertono Fifetto Cannella e Giuseppe Graviano: "Abbiamo la macchina". Poi ancora Spatuzza incontra da solo il suo boss,Giuseppe Graviano, quello che lui chiama "Madre Natura". Dice: "Mi fa un sacco di domande: mi chiede di questa 126… dove l’avevo rubata, se era intestata a persone di nostra conoscenza e gli ho detto di no, se qualcuno l’aveva già cercata e gli ho detto ancora di no. Gli ho spiegato che c’era la frizione bruciata, e per bruciare la frizione in quel genere… sicuramente la macchina era di una donna perché le donne portano i tacchi… quindi hanno il problema di staccare la frizione. E poi gli ho anche detto che ci ha… il problema della frenatura… che freni non ce ne ha… lui mi dice: ‘Puliscila tutta e di levare tutti i santini e anche l’immagine di Santa Rosalia’. Io quindi la pulisco tutta… levo tutti i segnali di riferimento che si poteva e ho bruciato i documenti, fogli, tutto quello che esisteva l’ho bruciato… anche un ombrello".

Dopo due giorni Gaspare Spatuzza sposta l’auto in un altro suo magazzino di corso dei Mille, dove poi porta un meccanico. "Sono andato a cercare a questo Maurizio Costa e gli ho detto che dovevamo fare un lavoretto nella 126, gli ho spiegato che si doveva fare la frenatura ma non gli ho detto altro. Gli ho fatto capire che l’auto era di un latitante e gli ho fatto capire anche che non doveva parlare. Quindi sono andato a comprare i ganasci, olio e altri pezzi. Ho speso quasi centomila lire". Spatuzza riceve da Vittorio Tutino due batterie e un antennino da collegare a un telecomando. E anche l’ordine di rubare due targhe di altre Fiat 126 per metterle sopra all’autobomba. Il boss Graviano gli raccomanda di rubare le targhe il sabato mattina, il 18 luglio. Così il furto, probabilmente, verrà denunciato solo il lunedì successivo. Dopo la strage.

E’ a quel punto che venerdì 17 luglio, verso le tre del pomeriggio, una Fiat 126 color amaranto scivola per le vie di Palermo carica di tritolo. Alla guida c’è Gaspare Spatuzza, accanto a lui Fifetto Cannella. Appena s’infila in corso dei Mille, Spatuzza incrocia con lo sguardo Nino Mangano, il capo del mandamento di Brancaccio che gli fa da battistrada su un’altra automobile. Spatuzza è sorpreso, poi capisce che è lì un po’ per controllarlo e un po’ per proteggerlo. Corso dei Mille, via Roccella, via Ventisette Maggio, piazza dell’Ucciardone dove c’è il vecchio carcere. Proprio, in quella piazza, c’è un posto di blocco della Guardia di Finanza. La staffetta Mangano avverte Spatuzza, che svolta all’improvviso verso il Borgo Vecchio. Si ferma a un chiosco, prende tempo. Quando Nino Mangano gli dice che la strada è libera, la Fiat 126 ritorna indietro, supera l’Ucciardone e punta verso la via Don Orione. Dopo poche decine di metri l’utilitaria sparisce dentro un garage di via Villasevaglios 17.

C’è uno scivolo di cemento, c’è un cancello di ferro e poi una saracinesca. Quando sale, Gaspare Spatuzza infila il muso della Fiat 126 lì dentro, dove ci sono ad aspettarlo due uomini. Uno è Renzo Tinnirello della "famiglia" di corso dei Mille, l’altro è Ciccio Tagliavia di Brancaccio. Ma alle loro spalle, nell’ombra, c’è anche uno sconosciuto, un uomo di una cinquantina d'anni che non è un mafioso. Nel 2009 Gaspare Spatuzza aveva indicato quell’uomo, con nome e cognome, come un appartenente ai servizi segreti. Nel 2010 ha fatto marcia indietro, parlando solo "di una certa somiglianza". Spento il motore della Fiat 126, Tinnirello dice a Spatuzza di pulire lo sterzo per cancellare le sue impronte digitali. Poi Tinnirello e Tagliavia imbottiscono l’auto e preparano l’innesco. Gaspare Spatuzza torna verso la sua Brancaccio, passa dall’Ucciardone ("il posto di blocco della Finanza non c’era più") e intuisce - dalla vicinanza con la casa della madre di Paolo Borsellino - a cosa servirà quella Fiat 126.

Era dalla prima settimana di luglio che erano cominciati gli appostamenti in via Mariano D’Amelio. Il primo sopralluogo. Poi, il secondo sopralluogo "circa una settimana prima della strage". Li avevano fatti Fabio Tranchina e Giuseppe Graviano. Il boss aveva chiesto a Tranchina di procurarsi anche un appartamento lì vicino ("senza agenzie, mi raccomando...") ma poi aveva visto un giardino dietro la casa della madre del magistrato e aveva deciso di piazzarsi lì con il telecomando. Sabato 11 luglio il boss Salvatore Biondino e i due cugini Salvatore Biondo e Giovan Battista Ferrante (uno detto "il lungo" e l’altro "il corto") provano il telecomando in campagna. Lunedì 13 luglio i Ganci della Noce contattano Antonino Galliano e lo avvertono di "tenersi pronto per pedinare" Borsellino la domenica successiva. Il 16 luglio Salvatore Biondino dice a Giovanni Brusca che è "sotto lavoro" ma che non ha bisogno di aiuto per la strage. Il 17 luglio Biondino chiama Ferrante e gli ordina "di tenersi libero per domenica che c’è da fare". Sabato 18 luglio Raffaele Ganci informa Salvatore Cancemi che, il giorno dopo, Borsellino morirà.

Alle sette del mattino di domenica 19 luglio i mafiosi delle "famiglie" della Noce, di San Lorenzo e di Porta Nuova sono "in osservazione" intorno a via Mariano D’Amelio. Alle 16,58 il procuratore salta in aria con cinque agenti della sua scorta. Sono stati solo i mafiosi? Scrive il procuratore Sergio Lari nella richiesta di revisione del processo Borsellino presentata, qualche giorno fa, alla procura generale di Catania: "Dopo diciannove anni, potrebbe sembrare singolare, se non addirittura anomalo, che siano state avviate nuove indagini destinate a mettere in discussione ‘verità’ che ormai sembravano acquisite". E, riferendosi alle false piste, il procuratore scrive: "Bisogna comprendere se con i depistaggi si volevano coprire la responsabilità di ‘soggetti esterni’ a Cosa Nostra riconducibili ad apparati deviati dei servizi segreti, ovvero ad altre Istituzioni o a organizzazioni terroristico-eversive".

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/10/27/news/spatuzza_uno_spatuzza_due-23993629/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep%2Dit%2F2011%2F10%2F27%2Fnews%2Fstrage_borsellino_l_ultima_verita_%2D23996011%2F

martedì 25 ottobre 2011

MUOS, a Niscemi lo SCIOPERO del MATRIMONIO

I fidanzati di Niscemi hanno deciso di non sposarsi più e di non fare figli: “Volevamo mettere su famiglia nella nostra città natale, per amore della nostra terra, ma da quando il M.U.O.S. sarà attivo (fine ottobre) però, abbiamo paura di sposarci e mettere al mondo dei bambini malati”.

Dicono così le coppie dei giovani fedeli siciliani, che hanno scritto (e sottoscritto in molti) una lettera ai vescovi di tutte le diocesi siciliane, per chiedere il loro intervento in merito alla questione matrimonio e procreazione.

L'antenna M.U.O.S. nella base statunitense “US Navy” di Niscemi si trova a circa otto chilometri dal centro abitato e il suo raggio compre una distanza di oltre 100 km (in linea d'aria), ragion per cui vengono coinvolte diverse realtà siciliane. Molti scienziati sostengono che le onde elettromagnetiche ad altissima frequenza emesse dal M.U.O.S., possano danneggiare seriamente i neonati (con leucemie, malformazioni, tumori, ecc.). Altri dicono di no.

I fidanzati siciliani, nel dubbio, preferiscono astenersi dallo sposarsi e giorno 29 ottobre, a Niscemi, scenderanno in piazza Vittorio Emanuele III, per la manifestazione spontanea NoMuos, con la loro inusuale proposta: la protesta di matrimonio. “Il matrimonio è un nostro diritto sia spirituale che civile: è questa profonda consapevolezza che ci accomuna; ci sentiamo minacciati e ricattati dal M.U.O.S.; offesi nei nostri animi di cristiani e di cittadini”, commentano le coppie siciliane.

Sono in molti nelle comunità di fedeli e fuori dalle comunità, a non voler ospitare strumenti di guerra nel proprio paese; molti quelli che non vogliono correre il rischio di mettere al mondo dei figli che potrebbero subire le conseguenze del M.U.O.S.; molti quelli che non vogliono trasferirsi, lasciando genitori, cari amici, parenti e abbandonando al proprio destino la loro amata terra.

Postergato, a data da destinarsi, il giorno delle nozze, scritta la lettera ai vescovi, in un manzoniano “questo matrimonio non s'ha da fare”, quale sarà la reazione della “Provvidenza”?
fonte:Sicilia On Line

Massimo Costa alla Gabanelli...

(Massimo Costa) Gent.ma Gabanelli,

la seguo sempre con molta attenzione e sono sicuro della sua onestà intellettuale.Per questo le scrivo la presente certo che non lascerà inascoltato quanto le segnalo Lei ha dedicato la sua ultima puntata al federalismo fiscale e, accodandosi a molti luoghi comuni, ha "sparato" sull'Autonomia Siciliana, senza forse conoscere come stanno realmente le cose. La sua trasmissione ha detto cose non vere. E questo è grave. Non è vero che la Sicilia non contribuisce alle spese dello Stato.



Se è vero che molti tributi restano in Sicilia al 100 %, è anche vero che allo Stato sono riservati (sempre al 100 %) altri tributi che complessivamente fruttano circa 13 miliardi l'anno: si tratta delle imposte di produzione, delle entrate da monopoli e di quelle da giochi e scommesse. Questo senza contare che anche il "riscosso" degli altri tributi, trattenuto integralmente in Sicilia, non è che una parte del "maturato" nella stessa Regione. In pratica le Regioni che hanno altrove la sede legale e in Sicilia solo una filiale, un ramo, etc. non versano una lira alle casse regionali. Per farle un esempio, il Banco di Sicilia versava alcune centinaia di milioni l'anno che adesso, in quanto Unicredit, sono versate a Milano. Ma quelle imposte "non sono prodotte" a Milano, bensì in Sicilia com'era sino a pochi anni fa. Tanto che, per ipotesi di scuola, se la Sicilia fosse un paese a sé, queste sarebbero tassate nuovamente in Sicilia e non nel Continente.






Quindi, l'affermazione che la Sicilia non contribuisce alle spese statali, è formalmente e sostanzialmente falsa. Poi anche il dato sui dipendenti regionali è assolutamente sballato. Per Statuto la Sicilia dovrebbe farsi carico di tutta la spesa pubblica, escluse solo le forze armate. Tale previsione si è realizzata solo in parte, non solo per la motorizzazione civile come lei dice, ma anche per i musei, le guardie forestali, etc. In pratica quelli che in gran parte d'Italia sono dipendenti statali, in Sicilia sono dipendenti regionali pagati con i soldi dei Siciliani (quel 100 % di cui si diceva prima). Saranno quindi anche fatti nostri quanti sono o no? Vero è che non tutto il personale dello Stato è stato ancora trasferito alla Regione (scuola, università, polizia, il costo di mezza sanità circa), ma se questo avvenisse, voi che fareste? Gridereste ancora di più allo scandalo perché i dipendenti della Regione sono ancor di più aumentati? Non funziona così.



La Sicilia non è una Regione, come riduttivamente pensate voi, è praticamente uno Stato, e infatti sostituisce lo Stato quasi dappertutto. Comunque, a conti fatti, tra trasferimenti al fondo sanitario (circa 2 miliardi), altri piccoli trasferimenti alla Regione e trasferimenti agli enti locali, spese dirette per quelle funzioni che lo Stato non ha ancora trasferito alla Regione, ogni anno lo stato spende in Sicilia circa 12 miliardi di euro, ben meno quindi di quelle che preleva. Io faccio il docente di Ragioneria all'Università, e le posso fornire tutti i dati che le servono, se vuole. Se ricarichiamo sulla Sicilia anche il costo di spese comuni che si svolgono fuori dall'Isola (spedizioni militari, debito pubblico, rappresentanza diplomatica), forse andiamo un po', ma solo un po', sopra quello che la Sicilia riceve. Insomma lo scandalo è inventato a tavolino, come non ha senso la "spesa standard" in una Regione che per Statuto deve vivere delle proprie risorse. Se le spende male, sono i Siciliani che pagano, non gli Italiani. E infine una considerazione elementare, che manca da tutto ciò. Se l'Italia è un paese unito, sarebbe fisiologico che lo Stato redistribuisca risorse dalle regioni a reddito più alto verso quelle a reddito più basso. Si può anche predicare una redistribuzione nulla, ma a questo punto si sta dicendo ai Siciliani e ai Sardi che è molto più conveniente per loro chiedere l'indipendenza. Se già oggi lo Stato riceve dalla Sicilia (che è mediamente più povera del resto del Paese) più di quello che dà (perché, mi creda, le cose stanno effettivamente così, nonostante la disinformazione organizzata cui, purtroppo, anche Report si è accodata), che senso ha dire che è ancora troppo e che la Sicilia deve contribuire ancora al Paese? In fondo l'Italia non ce l'ha prescritta il medico; ricordate sempre che ci avete conquistato con la forza e con la frode.



Ora avete dei doveri di solidarietà e di coesione economica nei confronti di tutto il Paese che voi, o i vostri predecessori, avete voluto costruire. Altrimenti, mi permetta, se siamo così tanto un peso morto, perché non ci abbandonate al nostro destino? Il vero fatto è che all'Italia non conviene, mentre conviene mettere le mani addosso alle nostre risorse e al nostro portafoglio, trovando sempre qualche complicità in loco. Senza però arrivare all'indipendenza, lo sa che lo Statuto integralmente applicato costringe la Sicilia a vivere delle proprie risorse al netto solo di un unico trasferimento per recuperare il gap infrastrutturale? Perché non ci fate applicare il nostro Statuto e ci lasciate in pace? In fondo non vi chiederemmo più una lira. Credo che la cruda realtà è che voi vogliate "anche" i nostri soldi per pagare i "vostri" debiti. E questo, alla lunga, non può funzionare. Mi dia la possibilità di replicare a Report, anche in pubblico contraddittorio. Le porterò fatti e numeri.



Con grande stima.

Massimo Costa - Università degli studi di Palermo

venerdì 21 ottobre 2011

"Nel 2001 Provenzano puntò su Romano"

PALERMO - Le dichiarazioni di un altro pentito aggravano l'atto d'accusa della Procura di Palermo nei confronti del ministro Saverio Romano. "Nelle elezioni del 2001, le famiglie mafiose di Villabate e Belmonte si interessarono per farlo votare", sostiene Giacomo Greco, genero del boss Francesco Pastoia, uno dei fedelissimi di Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra. Proprio da Provenzano sarebbe arrivato l'input per quella campagna elettorale che vedeva Romano candidato alla Camera: "Sia Pastoia che i suoi figli, Giovanni e Pietro, affermarono che su Romano c'era anche l'interesse dello zio, ovvero di Provenzano", ha precisato Greco. Le sue dichiarazioni, anticipate da l'Espresso, sono state inviate dalla Procura al gip Fernando Sestito che martedì dovrà decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio del ministro dell'Agricoltura, che deve difendersi dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

Giacomo Greco collabora con la giustizia dal 2008 e nei giorni scorsi il sostituto procuratore Nino Di Matteo e l'aggiunto Ignazio De Francisci sono tornati a interrogarlo, dopo avere ritrovato negli archivi della Procura una vecchia relazione di servizio dei carabinieri di Belmonte, il paese alle porte di Palermo dove è nato Saverio Romano, ma anche il boss Pastoia. Il 9 novembre 1997, alle 13.20, i militari controllarono un gruppo di persone che discuteva in piazza. C'erano l'allora avvocato Saverio Romano, l'imprenditore Pietro Martorana (poi ucciso nel 2000), e proprio Giacomo Greco. Il pentito non ricorda

di cosa si discutesse quel giorno, ma ha rivelato che Romano e Pastoia si conoscevano, e che il loro tramite sarebbe stato il boss di Villabate, Nicola Mandalà, già chiamato in causa anche dagli altri due pentiti che accusano il ministro, Francesco Campanella e Stefano Lo Verso. Giacomo Greco ha aggiunto che durante la campagna elettorale 2001 Pastoia avrebbe evitato di farsi vedere in giro, per non "bruciare" il candidato. Nel 2004, invece, l'atteggiamento dei boss sarebbe mutato: il pentito ha parlato di un progetto di attentato incendiario contro il padre di Romano, che abita a Belmonte. Ma poi non se ne fece niente. "Pastoia mi spiegò che Nicola Mandalà ce l'aveva con Romano - conclude Greco - non aveva mantenuto gli impegni".

Uno dei legali del ministro, Raffaele Bonsignore, torna a parlare di pentiti "ad orologeria". Ma è ormai polemica politica attorno a Romano. I capogruppo del Pd nelle commissioni Agricoltura di Senato e Camera, Leana Pignedoli e Nicodemo Oliviero, chiedono le dimissioni del ministro.

E poi, resta aperto anche l'altro fronte delle accuse, quelle di corruzione: Romano e il senatore Pdl Carlo Vizzini vengono chiamati in causa dalla Procura per alcune presunte mazzette che avrebbero intascato dal prestanome di Massimo Ciancimino, l'avvocato Gianni Lapis. Ieri, il gip Piergiorgio Morosini ha inviato le 40 intercettazioni fra Vizzini e Lapis al Senato, ritenendole "rilevanti" per l'inchiesta. Vizzini respinge le accuse: "Non voglio nascondermi dietro alcun privilegio - dice - ho già chiesto che quelle intercettazioni possano essere utilizzate dalla magistratura".
(21 ottobre 2011)
fonte: la Repubblica

mercoledì 19 ottobre 2011

LA STRAGE DIMENTICATA

La mattina del 19 ottobre 1944, a Palermo, una manifestazione di impiegati, esasperati dalla fame, confluì in via Maqueda il corso principale della città in direzione della prefettura da poco riconsegnata dagli Alleati all' Italia. Dai fianchi della strada dove sorgono i quartieri popolari si unirono al corteo centinaia di persone che divenne imponente.
Chiedeva pane. La tensione era molto alta le condizioni di assoluta povertà in cui vivevano i palermitani aveva esasperato gli animi, le idee indipendentiste avevano preso piede in città e le invettive contro gli affamatori italiani vennero declamate a gran voce.
La prefettura, temendo che la manifestazione si trasformasse in sommossa ordinò l'intervento dei militari della divisione Sabauda a protezione del palazzo. Giunti nei pressi della prefettura i manifestanti disarmati si videro fronteggiati dai militi, la rabbia montò ma non ebbe modo di esprimersi, dal retro di un camion dei soldati, senza alcun preavviso, venne lanciata una bomba a mano sulla folla e i militari armati di moschetti aprirono il fuoco. Falciarono soprattutto giovani e ragazzi che si trovavano in prima fila altre due bombe vennero lanciate, una di queste ferì 9 soldati.
La città venne totalmente militarizzata e in serata si dovettero chiamare i vigili del fuoco per lavare il sangue dalle strade. Il primo bilancio ufficiale fu di 16 morti 104 feriti. Una successiva inchiesta del CLN palermitano, tuttaltro che esaustiva, portò il numero dei morti a 30 ma la cifra esatta dell 'eccidio non si saprà mai, in molti morirono negli ospedali e nelle proprie case.
Una stima credibile parla di 90 morti e 180 feriti.
Nessun processo, nessuna inchiesta giudiziaria è stata fatta e questa vicenda senza colpevoli è stata inghiottita in un buco nero della Storia da cui non è più riemersa.
L ' EVIS CHIEDE CHE FINALMENTE LO STATO ITALIANO INDIVIDUI E CONDANNI I COLPEVOLI DELLA STRAGE DI VIA MAQUEDA

giovedì 13 ottobre 2011

Conti in tasca a Cammarata. Debiti per 261 milioni

3 ottobre 2011 - 261 milioni 226 mila 552 euro e 54 centesimi. Dal 2002 al 2010. E’ la cifra calcolata dal gruppo dell’Idv a Sala delle Lapidi, sede del consiglio comunale di Palermo, che l’amministrazione guidata dal sindaco Diego Cammarata è riuscita a totalizzare come debito fuori bilancio in otto anni di attività di governo. Cinquecento e più miliardi di lire. A cui devono aggiungersi i circa 30 milioni di euro, di debiti fuori bilancio, già sommati per il 2011. Una cifra abnorme ma soprattutto incontrollata. I debiti fuori bilancio, infatti, sono assunzioni di impegno finanziario da parte del Comune senza la preventiva e necessaria previsione in bilancio. Nessun costo di gestione (personale, acquisto di beni, servizi, trasferimenti), nessuna spesa prevedibile (interessi passivi o oneri finanziari e tasse), nessuna uscita preventivamente incardinata nel bilancio preventivo. Nessun passaggio di congruità finanziaria e nessun controllo di merito del consiglio comunale. Un bell’escamotage, quello dei debiti fuori bilancio, col sistema dell’urgenza per bypassare patti di stabilità, controlli contabili e opportunità amministrative. Anche perché il manuale del buon amministratore, prevede bene che per dare il via libera ad una delibera di impegno finanziario da parte dell’amministrazione deve garantirsi la copertura finanziaria che ovviamente non genera debiti fuori bilancio.

Come sottolinea il consigliere dell’IdV, Totò Orlando: “Evidentemente con questa caterva di debiti fuori bilancio, alcuni maturati anche per spese prevedibili, il sindaco Cammarata e la sua giunta, hanno evitato il giudizio di merito del consiglio comunale che nel pieno delle sue funzioni e delle sue prerogative avrebbe potuto bocciarne i contenuti”.

fonte: Blos Sicilia

Dirigente regionale promossa dal marito La denuncia dei Cobas

13 ottobre 2011 - Da dirigente del polo museale di Catania a capo dell’unità operativa per i beni storici-artistici alla Soprintendenza etnea: una promozione che ha comportato per la dirigente Luisa Paladino un sostanzioso aumento dell’indennità aggiuntiva, da 5.164 a 15.494 euro. La firma sul contratto l’ha apposta il marito della stessa dirigente: Gesualdo Campo, il superburocrate che guida il dipartimento dei Beni culturali della Regione siciliana. A denunciare il ‘caso’ è il Cobas/Codir, il sindacato autonomo che rappresenta il maggior numero dei 18 mila dipendenti regionali.
“Risulta, inoltre – sostiene il Cobas/Codir – che il dottor Campo retribuisce in modo difforme alcuni dirigenti sottoposti (come ad esempio quelli di Palermo e di Catania), sebbene siano assegnati alla stessa identica tipologia di incarico. A Palermo, infatti, alla dirigente posta a capo della unita’ operativa per i beni storici artistici, Campo ha concesso un contratto individuale che prevede un’indennità di posizione pari a 10 mila e 800 euro; a Catania, invece, per lo stesso identico tipo di responsabilità, l’importo è di 15 mila 494 euro (in aggiunta allo stipendio base e all’indennita’ fissa), ovvero la cifra massima assegnabile a un’unità operativa nella Regione siciliana: comunque, circa il 50% in più dell’importo corrisposto alla collega palermitana”. Secondo il sindacato, “visto il grado di affinità di parentela della dirigente catanese con Gesualdo Campo, sembrerebbe che nessuno si sia preoccupato che ciò possa avere assunto il profilo del cattivo gusto, della mancanza di bon ton istituzionale e, chissà, dell’eccesso di onnipotenza e di danno all’immagine della pubblica amministrazione”.
fonte: Blog Sicilia

Allarme tumori a Marsala

A Marsala è scoppiata la protesta contro un nuovo potente radar dell'Aeronautica in contrada Perino, dove le mortalità tumorali sono elevatissime. Dal Ministero il disturbo viene ripagato con appena 5 euro a famiglia.

Un agglomerato urbano di circa 10 mila persone. È la contrada Perino di Marsala, una delle zone periferiche più popolate. Qui sorge la base del 35° gruppo radar dell'aeronautica militare e non è un caso che si registri un'alta incidenza di mortalità per tumori. Non è un caso che non esista alcuna analisi d'incidenza delle onde elettromagnetiche redatta da un tecnico e vige un solo divieto per la fabbricazione entro il raggio di 600 mt dalla base.

Qui, vita civile ed esigenze militari convivono indisturbate da anni, con conseguenze che nessuno ha mai voluto analizzare, se non la stessa Aeronautica militare, che nel 2005 ha stilato una verifica dei rischi nella quale non viene riscontrato alcun pericolo di salute. Ma gli abitanti della zona sanno che così non è, e alla costruzione di un nuovo radar, uno degli 11 presenti in Italia, acquistato dopo le operazioni militari in Libia, hanno deciso di mobilitarsi nuovamente chiedendo l'intervento del Prefetto per venire a conoscenza dei reali rischi sulla salute.

Intanto Il Ministero si è preoccupato di inviare ad ogni famiglia una lettera dove si comunica il rinnovo della servitù per altri 5 anni. Per il disturbo saranno corrisposti 165 mila euro al Comune e 5,16 centesimi di euro a ciascuna famiglia.

Questa mattina è stato organizzato un corteo per dire no al nuovo radar, per sensibilizzare tutti al rischio cui si andrebbe incontro e soprattutto per ottenere le opportune informazioni che oggi non sono state mai prodotte, ha denunciato il consigliere comunale Michele De Maria, che è riuscito a raccogliere pochissime sporadiche informazioni in merito. Per questo il consigliere provinciale Ignazio Passalacqua porterà la questione in aula e seguirà la costituzione di un comitato spontaneo affinché possa essere incaricato di sviluppare un'analisi sull'incidenza delle onde nocive nella zona.
fonte:TELESUD

mercoledì 12 ottobre 2011

MA PURO L ' ALBIRI SI FUTTUNU ?!

Agrigento, quaranta palme dei giardini pubblici
piantate nella villa del presidente della Provincia

Un avviso a presentarsi per rendere interrogatorio come persona sottoposta a indagini è notificato dalla Procura della Repubblica di Agrigento al presidente della Provincia della Città dei Templi, Eugenio D'Orsi. I reati ipotizzati sono peculato, concussione e truffa. Il provvedimento all'esponente politico è stato notificato dal nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza

Al centro dell'inchiesta ci sarebbero alcuni atti compiuti dal presidente della Provincia di Agrigento. Tra questi la sistemazione nella sua abitazione di 40 palme di proprietà dell'Ente, che, sostiene la Procura, erano invece destinate a spazi verdi pubblici, aiuole di scuole e al giardino botanico.

Secondo la tesi dell'accusa, D'Orsi avrebbe fatto svolgere lavori in una sua proprietà senza pagarli, o pagandoli di meno, a imprese che avevano in esecuzione appalti con la Provincia e avrebbe usufruito di rimborsi spesa per pasti in realtà non sostenuti o non nell'interesse pubblico.

Inoltre il presidente D'Orsi, sostiene la Procura, avrebbe conferito incarichi esterni per esigenze per le quali la Provincia avrebbe potuto fare fronte con proprio personale.


(11 ottobre 2011 )
fonte: la Repubblica

martedì 11 ottobre 2011

Catania, l’ex sindaco Scapagnini e le sue giunte condannati per falso in bilancio

Falso in bilancio: con questo capo d’imputazione il giudice monocratico del Tribunale di Catania oggi pomeriggio ha condannato a 2 anni e 9 mesi di reclusione l’ex sindaco del capoluogo etneo e attuale parlamentare nazionale del Pdl, Umberto Scapagnini. Oltre a lui, pene severe per le due giunte comunali dell’era Scapagnini. I componenti del primo governo (l’ex ragioniere Vincenzo Castorina e gli ex assessori Francesco Caruso, Giuseppe Arena, Santo Li Gresti, Giuseppe Maimone, Giuseppe Siciliano e Gianni Vasta) dovranno scontare la stessa condanna dell’ex primo cittadino, mentre gli assessori della seconda giunta (Filippo Drago, Stefania Gulino, Mimmo Rotella, Salvatore Santamaria, Nino Strano, Mario De Felice e Giuseppe Zappalà) hanno avuto uno sconto di sei mesi: per loro ‘solo’ 2 anni e 3 mesi di carcere. Gli imputati, inoltre, sono stati anche dichiarati interdetti dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale e condannati al pagamento delle spese processuali.

Il processo per falso ideologico per il ‘buco’ in bilancio per centinaia di milioni di euro al Comune si è celebrato davanti al giudice monocratico Alfredo Cavallaro, dopo la decisione del 30 marzo 2010 di archiviazione del capo di imputazione più grave, quello di abuso d’ufficio. Il procedimento prese avvio da osservazioni formulate a suo tempo dai revisori dei conti relativamente al bilancio consuntivo del 2003, sul quale ha mosso rilievi anche la Corte dei conti. Nello specifico, Umberto Scapagnini e le due giunte municipali di Catania da lui guidate “falsificarono” i bilanci comunali del 2004 e 2005 per “occultare il disavanzo” ed evitare così, oltre al dissesto finanziario, la decadenza e l’incompatibilità da amministratori. Un buco in bilancio colmato con il finanziamento di 140 milioni di euro deciso dal governo Berlusconi e prelevati dai fondi Fas.

La condanna, inoltre, ha un peso specifico importante per due motivi: innanzitutto perchè i pubblici ministeri avevano chiesto la condanna a due anni e 4 mesi per l’ex sindaco e due anni per tutti gli assessori. Il tribunale, dunque, è andato oltre la richiesta. L’altro motivo è da ricercarsi nel fatto che il processo, già in fase di udienza preliminare, aveva perso uno dei due reati che venivano contestati, visto che il gip aveva prosciolto tutti per l’abuso rinviando a giudizio solo per il falso.

La vicenda giudiziaria per il buco in bilancio al comune di Catania è durato due anni: secondo i magistrati, la giunta Scapagnini nel formulare il bilancio del 2004 avrebbe previsto una copertura del disavanzo di 40 milioni di euro, indicando vendite di immobili che non potevano avvenire. Stesso discorso e stesso disavanzo per il rendiconto 2005. Nell’inchiesta entrò anche “Catania Risorse“, società creata dal comune per vendere immobili e fare cassa. Beni risultati però inalienabili. Secondo, l’accusa, dunque, i bilanci erano stati truccati ad arte.
fonte:il Fatto Quotidiano

sabato 8 ottobre 2011

Bindi su Lombardo : "Mai in giunta con un inquisito"

CALTAGIRONE - "Il Partito democratico ora ha l'obbligo di candidarsi alla guida della Regione. E per farlo non può portarsi appresso le ambiguità di questa stagione". L'ultimo attacco di Rosy Bindi a Raffaele Lombardo - e ai dirigenti del suo partito che in Sicilia hanno deciso di sostenerlo - è netto, diretto, frontale. Giunge dalla festa nazionale del terzo settore, l'appuntamento più importante per i democratici in una stagione di divisioni e kermesse cancellate all'ultimo momento (leggi Palermo), giunge dalla città di Don Sturzo, fondatore del partito popolare e oggi simbolo, dice la Bindi, "di un Pd dalla schiena dritta". Qui il centrosinistra amministra da quattro lustri, qui c'è uno zoccolo duro di antilombardiani, questo è stato uno dei centri in cui, a gennaio, si è celebrato il referendum sull'appoggio al governatore. Luogo simbolico, in ultimo, perché a pochi chilometri c'è Grammichele, il paese natale proprio di Lombardo. E la presidente del Pd sbarca nel Calatino dopo aver messo da canto le prudenze. "Il presidente della Regione? Faccia quello che ha fatto Penati: si dimetta e siamo a posto. Il problema non è che siamo tutti uguali: sono loro ad essere diversi, nel senso che non rispettano la legge". Messaggio inviato alla volta di Palazzo d'Orleans ma soprattutto a chi, nelle stanze del Pd all'Ars, ha scritto una lettera a Bersani per sostenere l'esigenza di entrare in giunta con Lombardo: "Quella del gruppo parlamentare, è bene ribadirlo, non

è la linea del partito". Il caso Sicilia, esiste, eccome. E nell'isola "l'appoggio a Lombardo può far nascere una questione morale". Qualcuno sente fischiare venti di scissione nel Pd: "Spero di no: è esattamente l'obiettivo di Lombardo". La Bindi si siede ad un tavolo del bar della villa comunale. Rifiuta una bevanda, si schiarisce la voce e l'accento toscano incornicia un j'accuse serrato. Ad ascoltarla i parlamentari Giovani Burtone e Bernardo Mattarella, l'ex assessore Franco Piro, il coordinatore della segreteria regionale Enzo Napoli, il capo del locale circolo Gaetano Cardiel. Di lì a poco, in serata, una platea di un migliaio di persone ascolterà l'intervista pubblica affidata a Pippo Baudo, che accoglierà la Bindi con galanteria: "Mi sa che d'ora in poi saremo una coppia fissa". Il clima è di festa, appena guastata dall'incursore Peppe Arnone, il consigliere comunale agrigentino che arriva anche a Caltagirone per chiedere a Rosy, a colpi di volantini, di "ripulire il partito non dagli amici di Lombardo ma dagli amici dei capimafia". E sono minacce, spintoni, fischi, fino all'intervento del servizio d'ordine.
Onorevole Bindi, ancora "scandalizzata" per il sostegno del suo partito a Lombardo?
"Scandalizzata e sorpresa. Perché io ho solo ribadito quella che è una linea del partito sancita da un congresso che ha visto vincere in Sicilia un segretario teorico dell'autonomia da Lombardo, appoggiato da un'area - quella di Mattarella - che era sulla stessa posizione. Ora, per cambiare quella posizione, servono nuove elezioni o un referendum. Non ci sono alternative".
La posizione di Lombardo si è notevolmente affievolita con la derubricazione del suo reato a voto di scambio.
"E sono sorpresa, se vuole aggiungerlo, anche per aver appreso che qualcuno, nel mio partito, ha addirittura fatto i complimenti a Lombardo: come se il voto di scambio equivalesse a un'assoluzione. Vede, io non ho mai cavalcato l'inchiesta giudiziaria per mafia nei confronti del governatore. Ma ritengo il voto di scambio un reato gravissimo che sottintende clientelismo e uso improprio della cosa pubblica. Se ci mettiamo, poi, che dagli atti della Procura risulta che lo scambio sarebbe stato perpetrato con la mafia, be', il quadro è completo".
Nel gruppo parlamentare c'è chi la pensa in modo diverso: si è parlato, con una metafora, di un'accusa di strage che si è risolta in una contravvenzione per divieto di sosta.
"Quegli stessi esponenti del Pd che hanno stravolto le mie parole stanno minimizzando la gravità della situazione. La nostra idea del partito è alternativa a quella che pratica Lombardo. Io sottolineo la gravità del voto di scambio perché credo che la politica, in questa terra, deve irrobustire la società: chi la indebolisce crea i presupposti perché la società venga utilizzata dai poteri mafiosi. Non possiamo cedere su questi temi".
Non rischiate, così, di indebolire l'esperienza di una coalizione anti-berlusconiana come quella che appoggia il governatore?
"Non è che in nome della battaglia al Cavaliere possiamo accettare qualsiasi linea politica. Anzi, questa posizione è la prova che non siamo accecati dall'antiberlusconismo".
Una ventina di deputati dell'Ars chiedono, invece, il governo politico.
"La linea del partito non è mai stata questa. La linea è quella che il segretario interpreta con molta fatica, perché incalzato dal gruppo parlamentare e dal suo presidente in particolare. Senza elezioni, o senza un referendum nel partito, non si cambia".
Ora nel Pd siciliano ci si interroga su quale referendum fare.
"Servono consultazioni vere, non camuffate, con partecipazione e informazione. Di certo, non si può ridurre il referendum su una questione politica a una mera ratifica di decisioni prese altrove".
Si riparte dal nuovo Ulivo.
"Sì, da una coalizione, da un programma e dall'ambizione di avere una classe dirigente in grado di esprimere un candidato alla presidenza della Regione".
Non teme che un'alleanza limitata al centrosinistra, alle amministrative, possa far vincere i candidati del centrodestra?
"La possibilità di un accordo con il Terzo polo esiste, quella dell'alleanza larga è una strada che si segue anche a livello nazionale. Ma il presupposto non può essere il sostegno a Lombardo. Un partito degno di questo nome guida la partite, non si fa trascinare".
Da presidente del Pd, non teme una scissione nel partito siciliano?
"Bisogna fare di tutto per evitarla. E deve essere chiaro che lo sport preferito da Lombardo è quello di spaccare le forze politiche, basta vedere la composizione della sua giunta. Con questo governatore la Sicilia è rimasta al sistema tolemaico, nel frattempo è intervenuta la modernità e vorremmo rimanervi. Quest'Isola ha dimostrato di essere capace di grandi primavere. Usciamo, allora, da questo inverno prolungato".
(08 ottobre 2011)
fonte: la REPUBBLICA

venerdì 7 ottobre 2011

Futura Termini non è in Fabbrica Italia

Futura Termini non è in Fabbrica Italia

Ieri sono stato insieme a Maurizio e Enzo davanti allo stabilimento Fiat di Termini Imerese ad un’assemblea, dopo 10 giorni di sciopero, di lavoratrici e lavoratori della Fiat e del suo indotto. Un’assemblea partecipata e piena di emozioni ed orgoglio come solo i lavoratori metalmeccanici del sud sanno esprimere. Quella di Termini è una comunità di lavoratori e cittadini che si sente tradita dalla Fiat e da Marchionne.

Lo stabilimento Fiat di Termini apre nel 1970. In 41 anni di attività ha prodotto la vecchia 500, la 126, la Punto ed infine la y. Nel1983 con 3000 dipendenti, oggi sono 1500 i dipendenti del gruppo Fiat e 700 dell’indotto, si arrivò a produrre più di 190.000 vetture. Nel 2002 la Fiat di Morchio prova a chiudere lo stabilimento una prima volta. La fabbrica si salva grazie a una tenace lotta che coinvolge tutta la comunità Termitana e arriva anche al presidio dello stabilimento. Nell’aprile del 2008 l’ad di Fiat Marchionne firma un’intesa per produrre a Termini 220.000 nuove y, quelle che sono oggi prodotte in Polonia, lanciando il piano “Futura Termini” con tanto di magliette, gadget e opportuno logo, una trinacria rossa. Si sa! Marchionne non sottovaluta mai la comunicazione. Per realizzare il progetto si dice che si investiranno 550.000 € e si fanno 250 assunzioni avviando corsi di formazione, si acquista addirittura un capannone attiguo allo stabilimento Fiat, costo circa 6 milioni di € per collocare lì temporaneamente la vecchia lastratura mentre se ne prepara una nuova. Quella nuova y avrebbe dovuto essere lanciata nel 2009. E’ invece avvenuto ad aprile del 2011, 2 anni dopo.

Marchionne allora dichiarava che “la manodopera di Termini e capace e qualificata”. Nel dicembre 2008, solo 9 mesi dopo tutto si blocca! Improvvisamente si scoprono problemi logistici e di costo, vengono meno i finanziamenti Europei, è difficile il rapporto con gli enti locali e il governo. Si annuncia quindi la chiusura per il 1° gennaio 2012. Tutto questo pesa sulla credibilità di Fiat e sul risentimento dei lavoratori siciliani, che oggi sono circa 2200 compreso l’indotto e pesa ancor di più su Salvatore che ieri mi chiedeva dei suoi vecchi compagni delle presse di Mirafiori, lui che è sopravvissuto al 1980 trasferendosi alla Fiat Termini in riva al mare per vederla finire oggi. E così è capitato anche a Vincenzo che invece aveva lasciato Milano per scampare alla chiusura di Arese. Vecchi immigrati di ritorno, non rassegnati, che hanno acquisito dignità e diritti con il lavoro, preoccupati per il futuro dei loro figli e di un Sud a rischio di desertificazione industriale. Uniti a giovani assunti negli ultimi anni per rilanciare Termini che si ritrovano precipitati di nuovo nella precarietà senza diritti da cui pensavano di essere finalmente usciti e che, come mi ha raccontato Massimiliano, sposato da poco con un insegnante disoccupata che trova solo da fare ripetizioni private, i figli hanno rinunciato a farli nella crisi.

Per tutti loro oggi l’incertezza industriale e di futuro con i nuovi imprenditori, la DR di Di Risio, il timore di un’agonia con una chiusura in differita magari attraverso prestanome, la richiesta di garanzie e la certezza che la Fiat di Marchionne con loro non ha rispettato un accordo, non ha mantenuto l’investimento. Futura Termini non è in Fabbrica Italia.
fonte: il Fatto Quotidiano

martedì 4 ottobre 2011

UNA IMMENSA PRESA PER IL C*ULO

Un sistema o lo si combatte dall’esterno o lo si cambia dall’interno. Perchè questo succeda e’ necessario ovviamente che ad una idea (sistema) se ne contrapponga un’altra e, soprattutto, che vi siano uomini pronti a difendere quell’idea. In queste poche righe potrebbe riassumersi oggi la fine imminente ed ingloriosa della Sicilia.
Vi sarebbero dati da fornire, analisi fatte da esperti su come le scelte economiche di breve, medio e lungo periodo di questo governo manterranno la Sicilia in fase di stagnazione e/o recessione, prossima al fallimento e alla dipendenza che ne conseguira’. La Svimez ha da poco certificato: Manovre dal "carattere squilibrante". Così il Rapporto Svimez 2011 fotografa gli interventi del Governo per il riequilibrio della finanza pubblica. "L'effetto cumulato delle manovre 2010 e 2011 dovrebbe pesare in termini di quota sul Pil 6,4 punti al Sud (di cui 1,1 punti nel 2011, 3,2 punti nel 2012, 2,1 punti nel 2013) e 4,8 punti nel Nord (1 nel 2011, 2,4 nel 2012, 1,4 nel 2013).
In particolare, sul fronte degli incrementi delle entrate, il 76% si realizzerebbe al centro-nord e il 24% al sud, ricalcando il peso delle diverse aree in termini di produzione della ricchezza. Sul fronte, invece, della riduzione delle spese, il contributo delle Regioni meridionali al risanamento finanziario arriverebbe al 35% del totale nazionale, una quota superiore di 12 punti percentuali al suo peso economico.
Basterebbe poi pensare alla Fiat che va via, alle ferrovie dello stato che dismettono, al ponte sullo stretto, all’asse di infrastrutture Berlino- Palermo (rimodulato escludendo il sud), eccetera eccetera…. Basterebbe solo questo per avere una visione panoramica e complessiva di quello che abbiamo attorno. Il Nulla.
Ci e’ mancata una visione grande? E’ colpa nostra? In parte si e in parte no. Non ci e’ mancata l’idea, ci sono mancati uomini che ci rappresentavano e che erano realmente portatori di una idea diversa e contraria a quella del governo nordista.
Per mandare in rovina il sud e la Sicilia ed affermare - nel senso di concretizzare – l’idea secessionista del governo attuale (nonostante la barzelletta del piano del Sud di B.) e’ necessario, infatti, demolire lo Stato italiano quale ente - soggetto ma, non del tutto, solo quanto basta a mantenere il controllo sui territori, salvo poi interrompere ogni collegamento funzionale tra i singoli cittadini e lo Stato. Uno Stato insomma che impone ma al quale i cittadini non possono chiedere nulla. Questo sta succedendo in Italia. L’abolizione delle province ne e’ la prova piu’ evidente. Considerato che il nome verra’ sostituito con altro nome e che le funzioni ed i costi saranno uguali, a qualcuno non sara’ sfuggita la domanda sul perche’ allora farlo. Per pura propaganda dicono alcuni ( al pari del piano del sud di B.). Invero l’unica differenza tra prima e dopo sara’ data solo dal fatto che le ex province non saranno piu’ enti pubblici statali ma regionali. A pezzi a pezzi e con piccoli passi si distrugge lo Stato, per non dare troppo nell’occhio, e sempre dietro false motivazioni (piu’ autonomia, minori costi pubblici ecc ecc). La lega non ha bisogno di fucili, scrive le leggi e il parlamento le approva. Basta questo.
La grande innovazione nel nostro ordinamento e’ stata poi il federalismo fiscale. Una immensa presa per il culo che si puo’ racchiudere nelle parole di Tremonti alla platea di CONFINDUSTRIA: “Il federalismo fiscale e’ fatto per togliere ai ricchi ladri del sud e dare ai poveri del nord”. Il federalismo fiscale non esiste, non significa nulla ed anzi applicato alla lettera portera’ soldi al nord, gli stessi soldi che dovrebbero essere destinati al sud.
C’e’ chi sostiene che tutto questo non avrebbe senso e che il nord non ne avrebbe guadagno. In effetti è così, lo capiscono tutti anche perché i prodotti del nord vengono comprati al sud ma, purtroppo, noi non abbiamo a che fare oggi né con il senso dello stato, né con la logica e né tantomeno con il diritto.
Il governo oggi ha fretta. Impone in via d’urgenza l’esame e l’approvazione della grande riforma della Costituzione firmata Calderoli. Sanno che non avranno futuro e cercano di blindare il loro potere. Ovvio.
Se il testo e’ quello approvato nel CdM ecco che:
- Il Senato federale avra’ seggi divisi per regione in proporzione al numero della popolazione che risultera’ dall’ultimo censimento. Tenendo conto della favolosa composizione statutaria della Repubblica federale padana dovrebbe quindi esserci senato a maggioranza nordista (ma considerato il livello di sudditanza dei politici del sud anche con diversa composizione il discorso non cambierebbe) che decidera’ quindi per competenza esclusiva in materia dei fondi destinati alla perequazione . Un governo che decidera’ anche di ripristinare (non con decreto …. Certo cosi’ almeno gli ignoranti presuntuosi sono contenti!) disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale (non e’ cosa di poco conto ma questa e’ la Lega!). E un presidente della Repubblica che potra’ sciogliere solo la Camera, ma non il Senato federale. Tradotto: Da ora in poi saremo nelle mani e sotto il potere di questi folli ignoranti e razzisti vestiti di verde che vogliono vedere marcire il sud per liberarsene e nessuno potra’ fare nulla. Esagerato? No! Parliamone, ma parliamone veramente! Nessun giornale informa, veniamo trattati come le pecore che devono adeguarsi, di contro anche nelle maggiori testate giornalistiche lo scandalo sembra riguardare se B. abbia intrattenuto rapporti con 8 o con 11 donne. Non ci interessa allo stato attuale. Il grado di decadimento e’ chiaro a tutti.

La Sicilia e’ ferma.
Esiste una linea che viene definita “punto di non ritorno”. E’ quella linea immaginaria oltre la quale non si puo’ piu’ tornare indietro. L’Italia e’ divisa in due, il divario Nord – Sud non si risolvera’ da solo e questo governo secessionista non doveva essere al governo.
Non facciamoci prendere in giro, per favore. Quello che un giorno ci daranno per concessione ci spetta oggi per diritto. Siamo perdenti allo stato attuale ed e’ un lusso che non ci possiamo piu’ permettere.
Insomma, si salvi chi puo’ e noi dobbiamo salvarci.
QUINDI CHE FARE ?
RIPRENDERCI LA NOSTRA SOVRANITA’, NON ABBIAMO ALTRA SCELTA !
N. A.

sabato 1 ottobre 2011

Farmaci tagliati ai malati di tumore

“Perché dobbiamo spendere soldi…”. Le intercettazioni che hanno incastrato la dottoressa Maria Teresa Latteri, che per risparmiare negava la somministrazione del Tad, un disintossicante, ai malati di tumore dopo la chemioterapia, hanno dell’agghiacciante e svelano una truffa ai danni dell’Asp per 1,2 milioni di euro che coinvolge tre cliniche private e 17 fra manager e professionisti, fra cui due medici in servizio presso strutture pubbliche.

Grazie alle microspie piazzate dai carabinieri del Nas nel settembre del 2009, presso la clinica di via Cordova a Palermo, è stato scoperto che la Latteri non autorizzava la somministrazione del Tad ai pazienti in day service per i quali la Regione rimborsa solo 100 euro. Ma le frasi che hanno messo nei guai la dottoressa sono solo una parte dell’inchiesta che vede coinvolti i vertici di tre cliniche del capoluogo siciliano (oltre alla Latteri anche la Maddalena e la Noto-Pasqualino) per truffa sui rimborsi di esami e ricoveri, per un totale di 1,2 milioni di euro. Le indagini, condotte dal pm Amelia Luise, sono cominciate nel 2008 e si sono concluse lo scorso anno. Sarebbero 17 i manager e professionisti coinvolti, che dovrebbero essere rinviati a giudizio, fra cui anche due dottori in servizio in ospedali pubblici che venivano pagati per dirottare pazienti alla Latteri e alla Noto, sostenendo che nei nosocomi non ci fosse posto.

Intercettazioni dalla quale emerge che alcuni colleghi non erano d’accordo con la Latteri, che però rispose: “Allora non hai capito che la prassi che fai tu costa alla clinica duecentocinquanta euro e quello (l’assessore regionale alla Sanità Massimo Russo, ndr) mi dà cento euro. Continuo a dire che non si può fare così”. Il trattamento riguardava solo i pazienti in day service e non quelli in day hospital o normalmente ricoverati, e suscitò parecchie rimostranze fra i colleghi ormai stanchi di condannare i pazienti a dolori e sofferenze pur di risparmiare qualche euro. I carabinieri, nell’agosto del 2009, furono pure costretti a intervenire per salvare un paziente al quale non veniva somministrata l’albumina. Una mossa che insospettì la Latteri: “Io al telefono non parlerò più di nulla”.
fonte:Livesicilia

Ingroia: "Un'intercettazione mi ha salvato la vita"

PALERMO - "L'ho scampata per un pelo", dice Antonio Ingroia: "Non fosse stato per una telecamera piazzata su un casolare di Calatafimi e per alcune intercettazioni ambientali la polizia non avrebbe mai trovato il rifugio di Mimmo Raccuglia, il capomafia che progettava un attentato nei miei confronti". Al procuratore aggiunto di Palermo consta personalmente che un'intercettazione può anche salvare una vita.

È per questa ragione che non le piace il disegno di legge che trasformerà radicalmente il sistema delle intercettazioni?
"Se questo disegno di legge dovesse essere approvato, saremmo di fronte a un pericoloso passo indietro per gli apparati investigativi, che all'improvviso resterebbero disarmati. Anzi, resterebbero sordi e ciechi e ci troveremmo nella condizione di non poter più prevenire i pericolosi programmi di riorganizzazione delle mafie".

Quali indagini diventerebbero impossibili?
"Tante di quelle che hanno segnato la storia dell'antimafia. Le indagini per l'arresto di Mimmo Raccuglia, che ho coordinato io nel 2009, mi riguardano personalmente. Ma non sono il caso più eclatante. Negli anni scorsi, iniziammo a indagare sui canali del riciclaggio internazionale sfruttati dagli imprenditori palermitani Zummo grazie ad alcune parole captate in un'intercettazione che non riguardava apparentemente un caso di mafia".

Le indagini della Procura di Palermo dicono che Cosa nostra si sta riorganizzando.

Le intercettazioni riescono davvero a entrare nei segreti dei boss?
"Non bisogna smettere di avere orecchie sul territorio, gli ultimi omicidi commessi a Palermo ci dicono che l'organizzazione mafiosa sta cambiando strategia. E non sappiamo esattamente verso quale direzione. Di certo, è necessario tenere presente l'evoluzione della mafia finanziaria, ma anche le dinamiche della mafia militare. E per farlo, non possiamo che utilizzare al meglio lo strumento delle intercettazioni, altro che ridurlo".

I sostenitori del progetto di riforma sostengono che il disegno di legge sulle intercettazioni non spunterà affatto le armi di chi combatte il crimine.
"Una cosa deve essere chiara: le intercettazioni restano lo strumento principale in difesa della collettività dal crimine di qualsiasi tipo, semplice oppure organizzato. Restano lo strumento principale per difendere la collettività da cricche o clan. Negli ultimi dieci anni le intercettazioni hanno sventato stragi, omicidi, traffici di armi e di qualsiasi altro tipo. Senza le intercettazioni ci sarebbero più delinquenti in giro, e il nostro Paese sarebbe anche peggiore di quello che è".
(01 ottobre 2011)
fonte: la Repubblica