Abbiamo ascoltato le loro parole e visto le loro facce. Gli operai dell’ultimo turno, ripresi da telecamere delle tv hanno raccontato la fine di un’epoca meglio di tante analisi e saggi. Inseguiti dai giornalisti, restii e insofferenti, pareva che si vergognassero di quel che stava accadendo, come se si sentissero in colpa. Non c’entrano niente con questa storia, la stanno subendo di brutto e non possono farci proprio niente.
Il fatto è che non sanno con chi prendersela. La Fiat di Marchionne sta a quella di Agnelli, come Amintore Fanfani a Mario Monti. Due mondi, due culture, due economie abissalmente diverse. La Fiat aveva testa e cuore a Torino, oggi ha la testa negli States.
Quarantuno anni fa, quando fu inaugurato lo stabilimento a Termini Imerese, il Mezzogiorno viveva la luna di miele dell’intervento straordinario. Soldi, pacche sulle spalle, taglio di nastri. Pareva tutto rose e fiori.
Le partecipazioni statali facevano il bello e il cattivo tempo, con i gran commis dello Stato che a Milano e Roma tracciavano la road map degli “aiuti” e degli “aiutini”, secondo i bisogni dei partiti e dei loro capicorrente. Ai boss meridionali toccavano le briciole, apprezzate e sollecitati, perché era già tanto, meglio di niente.
L’Avvocato e la Fiat riuscirono a farsi largo nella “selva” degli incentivi, assieme alla chimica di Rovelli, i Clark Gable dell’industria italiana, approdato in Sardegna. La Sicilia centromeridionale era stata concessa all’Eni di Enrico Mattei e, per la parte orientale, ai privati lombardi. Incentivi a go gò. Coste, boschi, colline devastati. In compenso c’erano le tute blu a passeggio di sera nelle strade del centro a Gela, Priolo, Milazzo. Facce compiaciute: finalmente uno stipendio ed un futuro,
Il salto di qualità avvenne a Termini. La petrolchimica era industria di base, la Fiat significò l’industria manifatturiera, fu come essere promossi sul campo. Agli occhi del mondo, però, perché non stavano così le cose: dalle parti di Gela, e non solo, i salesiani, tanto per fare un esempio, senza fare rumore, formavano fior fiore di tecnici specializzati che da lì a poco avrebbero invaso il mondo con la Saipem, la Snam, l’Agip petroli e l’Agip Mineraria. Gente dura, abituata a sopportare disagi, disposta a lavorare anche in cima di un vulcano, ancora oggi in ogni angolo del pianeta.
Quegli uomini che a testa bassa e con la morte nel cuore a Termini affrontavano l’ultimo turno di lavoro si sono sentiti “umiliati” perché gli è toccato subire una malandrinata del destino. Sconfitti, nonostante abbiano “vinto”. Contro i pregiudizi e la diffidenza.
La Fiat di Marchionne non ha niente a che vedere con la Fiat dell’Avvocato, ma c’è qualcosa che è rimasta la stessa: oggi, come allora sta dietro agli incentivi. Una volta a tirare fuori i soldi era lo Stato e la Regione siciliana, oggi a pagare gli operai polacchi, che s’accontentano di poco. O quelli americani, costretti a ricominciare da capo per evitare di restare senza lavoro. E tutti a incensare polacchi ed americani, quasi che accettare il peggio per evitare il nulla sia una specie di miracolo di san Gennaro.
Quando fu deciso di mandare in pensione il Ministero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, dissero che l’Italia era stata dissanguata dai meridionali. Un mare di quattrini regalati a fannulloni e capoccia della politica. La tirarono fuori al Nord questa storia, i leghisti ante-litteram, che da san Donato Milanese o dai salotti buoni dell’industria da un decennio facevano il bello e il cattivo tempo, in piena sintonia con i leader dei partiti romani.
Raccontarono che il Sud aveva fatto il suo danno tutto da solo. E che i soldi erano finiti nelle tasche di infingardi, mafiosi e ladri di passo. Loro se ne sarebbero stati a guardare. Poi si scoprì, con le inchieste giudiziarie, che le grandi holding del nord avevano messo tenda un poco ovunque nel Mezzogiorno e s’erano spartiti la torta, senza guardare per il sottile, tutt’altro.
Il Ministero per gli Interventi straordinari, spremuto come un limone, arrivato il tempo delle vacche magre, fu buttato via perché non serviva più ai padroni del vapore. Le partecipazioni statali, con alcune eccezioni importanti, furono smantellate, dopo essere state al servizio dei partiti e delle lobby industriali che dominavano il Paese.
Ora scoprono che la Finmeccanica, sopravvissuta con l’Eni, ha patteggiato con leader di partito commesse e nomine. Come fosse una novità.
Termini Imerese è nata per volontà di un capitano d’industria bene ammanicato che fiutò l’affare. La Fiat non ha mai dato un futuro alla sua fabbrica siciliana, l’ha tenuta sempre “di rimessa” ed ha bussato a quattrini a lungo. Gli operai siciliani sono diventati bravi quanto i torinesi, perché non hanno niente di meno e da qualche tempo, hanno cominciato ad amare la “loro” fabbrica.
Sono stati traditi sin dal primo giorno. Non solo da Marchionne, che si sente estraneo, sbagliando, ai “favori” ricevuti dallo Stato. La fabbrica è rimasta lontana dai mercati, dai luoghi delle decisioni, dal “triangolo” industriale. Un’oasi nel deserto. Come Gela, Milazzo, Priolo. Il mea culpa lo devono recitare in tanti. Ma non gli operai di Termini. Loro no.
Ora bisogna mettersi tutto dietro le spalle e voltare pagina. Non c’è alternativa.
fonte: SiciliaInformazioni.com
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