Esistono tanti tipi di silenzio. C’è il silenzio leggero e spensierato che arriva sempre, inevitabilmente, dopo una bella risata; c’è quello vuoto dei momenti inutili in cui mancano le parole; c’è il silenzio grave e pesante della tristezza, dello spaesamento, del lutto. A Lampedusa c’è silenzio. Un silenzio particolare: profondo. Unico, perché non è reale. E’ piuttosto un silenzio interiore, che assume i contorni confusi che ciascuno è in grado di disegnargli, nel momento in cui sente la solida consistenza dell’isola sotto alle suole delle scarpe.
Dopo il clamore dei giorni scorsi, Lampedusa si è progressivamente svuotata. Per le strade non si vedono più passeggiare senza meta le centinaia di immigrati con le loro facce scure e i sorrisi candidi; davanti ai panifici del paese non si formano più i capannelli di tunisini in attesa per comprare un panino, o che ti seguono per venderti una palma intrecciata, e racimolare qualche euro. Oggi Lampedusa è un’isola vuota. Non è semplice trovare persino gli stessi lampedusani. A regnare e ad aleggiare sull’intera isola è invece soltanto un pensiero, costante e angoscioso: il naufragio di un barcone carico di 300 disperati.
Così, sul molo Favaloro, teatro fino a ieri degli ultimi sbarchi, il tempo scorre lento. Si attendono i superstiti, si temono i cadaveri. Su quella carretta schiaffeggiata dalle onde non c’erano tunisini. C’erano somali, eritrei, nigeriani, camerunesi. C’erano donne. Tante donne. E anche qualche bambino. Alle 12 di ieri la conta dei naufraghi recuperati dalle motovedette è presto fatta: sono 48. I servizi di pattugliamento aereo e le motovedette parlano di decine di corpi, ma le condizioni proibitive del mare rendono difficile, se non impossibile il loro recupero. Il mare sarà il loro destino.
I superstiti hanno addosso una coperta che sembra di stagnola dorata. Li dovrebbe tener caldi aiutandoli a riprendersi dai principi di ipotermia. Molti di loro sono senza pantaloni. Altri sono direttamente nudi. I loro poveri stracci gli sono stati strappati via dai compagni di viaggio più sfortunati, in un ultimo tentativo di restare aggrappati a questo mondo.
Al poliambulatorio vengono trasferiti quelli combinati peggio. Gli altri andranno direttamente all’ex base Loran, in attesa di venire trasferiti, nei prossimi giorni, in altri centri nel resto d’Italia. All’ospedale di Lampedusa portano una donna incinta. E’ una giovanissima somala all’ottavo mese di gravidanza. Il suo corpo sfatto, adagiato sul lettino della piccola guardia medica, racconta il terrore vissuto poche ore prima; i suoi occhi svelano l’incubo e l’angoscia per le sorti del bambino. Sarà il medico di guardia a rassicurarla: è salva, così come il piccolo. In un angolo poi c’è Peter. Ha 28 anni, viene dal Camerun, e ricorda una mano che non è riuscito a stringere, strappata via da un’onda maledetta. Era quella della sua ragazza. Lei e Peter avevano raggiunto Al Zwara, con la sola speranza di salire su quella carretta e raggiungere un Eldorado chiamato Europa. “Ieri il mare era in tempesta, sembrava di stare sul Titanic – racconta -. La barca ondeggiava vertiginosamente a destra e sinistra. Ci tenevamo per mano, poi sono caduto giù e non l’ho più vista”. “Ieri” dice Peter. Come se con quello “ieri” potesse fermare il tempo nel preciso istante del suo racconto, riportandolo a quella stretta di mano, e stringere la sua donna ancora più forte, perchè quel miracolo del loro amore non si perda per sempre nell’abisso.
E’ così vicino ieri. Sembra quasi di poterlo toccare. Talmente vicino che non sembra per niente possibile che sia passato per sempre. Solo un miracolo potrebbe farlo tornare indietro. Squilla un telefono. La donna è viva, sta bene, ed è alla base Loran. I due si riabbracceranno un quarto d’ora dopo. Perchè i miracoli, per chi ha la forza di crederci, non possono sempre finire in fondo al mare.
fonte : Livesicilia
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