mercoledì 30 marzo 2011

729 anni fa a Palermo...

Si vuole che, quando l'Arcivescovo Gualtiero Offamilio, pose la prima pietra per la erigenda Chiesa di Santo Spirito, per un eclissi, oscuravasi il sole. Ciò nell'anno 1173.

Sorse così la Chiesa e l'annesso monastero di Santo Spirito nella grande pianura che, per decreto del viceré Caracciolo, nel 1782, divenne il cimitero di Sant'Orsola.

Era costume dei Palermitani, recarsi il lunedì di Pasqua in quella grande pianura, per mangiare all'aperto e divertirsi.

Giovanni di Saint Remy, giustiziere di Val di Mazara, aveva proibito ai cittadini, nell'anno 1282, pena la vita, di portare armi.

Droetto, ufficiale francese, avendo ammiccato fra la folla una leggiadra giovinetta, decise, malgrado quella fosse in compagnia dei genitori e del fidanzato, di metterle le mani nel petto, con la scusa di accertarsi se avesse armi nascoste. La giovane donzella, a quell'atto, gridò e svenne.



L'insulto fatto ad una fanciulla fu la scintilla che provocò la ribellione, che doveva propagarsi rapidamente in tutta l'Isola.

Un ardimentoso giovane, accortosi di quell'atto inverecondo, trasse dal fianco stesso del francese, la spada, e gliela immerse nel seno. In quel mo­mento le campane annunziavano l'ora del vespro. Un grido solo eruppe dal petto degli astanti: — Muoiano i Francesi! —

I Palermitani armatisi di sassi li scagliarono contro i Francesi.

Il gesto di Droetto fu come la goccia che fa traboccare il vaso già colmo.



La zuffa fu breve, ma la strage fu grande : duecento erano i francesi e due­cento ne caddero. Gli insorti corsero alla città e ripeterono il fatidico grido : — Morte ai Francesi! —. Quella stessa notte il popolo palermitano, aduna­tosi a Parlamento, stabilì di reggersi a Comune sotto la protezione della Chiesa. Suscitata così la rivolta, i baroni corsero alle loro terre, animando dappertutto il popolo a seguire l'esempio di Palermo. Questa formidabile rivolta, combattuta con sassi, coltelli e bastoni, fu la più eloquente espres­sione del carattere siciliano, che, di fronte alla tirannide, insorse con uno scatto spontaneo ed impulsivo.

Il grido di « Muoiano i Francesi! » fu da Dante raccolto e rivestito di poesia (1):

E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo ma per nascente solfo,

attesi avrebbe li suoi regi ancora,

nati per me di Carlo e di Ridolfo;

se mula signoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar « Mora! Mora! ».

Nella riunione della notte seguente l'eccidio, i Palermitani dessero come loro capi Ruggero Mastrangelo, Nicolo Ebdomonia, Arrigo Baviero e Nicoloso Ortoleva. Ripresero il loro vecchio vessillo: l'aquila d'oro in cam­po rosso. Giovanni di Saint Remy con un pugno di animosi, sperava di tener testa ai rivoltosi; ferito in volto, fuggì sperando di trovar riparo al castello di Vicari, ma raggiunto dai rivoltosi di Palermo e da quelli di Caccamo, fu ucciso.

Sul finir d'aprile non v'era più traccia del dominio francese in Sicilia. Carlo d'Angiò, ordinò a Erberto di domare Palermo, ma la rivolta di Mes­sina lo costrinse a sollecitare aiuti in Francia. Con un grosso esercito e col legato del Papa armato di scomuniche, Carlo mosse sopra Messina, dopo di essere sbarcato in Milazzo.



I Messinesi respinsero eroicamente l'assalto, deposero Mussone, primo loro capitano del popolo, che s'era lasciato sconfìggere, ed dessero Alaimo da Lentini, vecchio ma savio. Dopo tre giorni re Carlo ritentò la battaglia, ma anche questa volta i Francesi furono respinti. Anche le donne, veglia­rono sui destini della loro città e, quando una notte le truppe di Carlo ten­tarono di scalare le mura della Capperina, le donne affrontarono il nemico e gridarono soccorso. I cittadini accorsero e i Francesi furono inseguiti. I nomi di Dina e Clarenza (le due donne che ritroviamo raffigurate nel cam­panile di Messina) si resero celebri per il loro eroismo.



Re Pietro d'Aragona giocò di astuzia, diede ad intendere che il Queralt e il Castelnau sarebbero andati dal Papa, mentre segretamente li inviò in Palermo per far conoscere che era pronto a debellare Carlo d'Angiò.

Dopo tale annuncio re Pietro, il 4 settembre, giunto in Palermo, intimò a Carlo di abbandonare la Sicilia, e corse subito a dare aiuto a Messina.

Ordinò nel frattempo all'ammiraglio Ruggero di Lauria di recarsi con tutte le galère siciliane e aragonesi a combattere improvvisamente l'armata Angioina.

Intanto Arrighino da Genova, ammiraglio di Carlo, fu di ciò avvisato da una spia. Consigliò quindi Carlo di oltrepassare lo stretto di Messina.

Quando giunse il Lauria, molte galère avevano di già guadagnato la costa calabrese, ma potè sempre distruggere quelle che non avevano fatto in tempo ad allontanarsi.



Così Messina, con la virtù completò la liberazione dal dominio gravoso degli Angioini della Sicilia, che Palermo a suo onore e vanto aveva iniziato il lunedì di Pasqua del 1282. Essenzialmente popolana e borghese, senza che alcun nome di feudatari potenti vi figurasse nel suo primo periodo, la rivoluzione del Vespro, per cinque mesi non suonò che repubblica, federa­zione di Municipi a modo Guelfo sotto la tutelare autorità della Chiesa (l). La guerra tra Angioini ed Aragonesi, si concluse nel 1302 con la pace di Caltabellotta, cittadina fondata dagli Arabi.



TRATTO DA STORIA DI SICILIA DI G.GANCI BATTAGLIA



(1) Paradiso - Canto Vili, versi 67-75.



(1) L'indomani del Vespro si ribellarono ai francesi tutte le città vicine, prima fra tutte Corleone, che il 3 Aprile inviò i suoi ambasciatori a Palermo per realizzare una lega per la comune difesa. Questo patto diede vita al primo nucleo della Federa­zione Siciliana dopo la rivoluzione contro i francesi. Per Palermo firmarono i capi­tani del popolo « Ruggiero Mastrangelo, Arrigo Baverio, Niccolo D'Ortilevo Militi e Niccolo d'Ebdemonia, il governatore della città giudice Jacopo Simonide e i consi­glieri Tommaso Grillo, Simone de Farrasio, Perrone di Caltagirone, Bartolotto de Milite, Luca de Guidayfo, Riccardo Fimetta Milite e Giovanni de Lampo; per Corleo­ne gli oratori di quella città. Guglielmo Basso,, Guifone de Miraldo e Guglielmo Corto.

I due Comuni, in forza di tale patto si impegnavano all'unione, alla fedeltà, ed alla fratellanza. Nel contempo dovevano aiutarsi nella difesa con armi, persone e denari e assicurava i diritti della reciproca cittadinanza e le franchigie dalle imposte sui dazi.

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