giovedì 21 luglio 2011

L’incrocio “milanese”: trattative con lo Stato e con la nuova politica.

Le celebrazioni, gli anniversari sono sacrosanti, perché regalano il ricordo alle vittime e quel poco di conforto che è dovuto ai congiunti ed amici. Mantenere viva la memoria è un dovere ed anche un bisogno per “riconoscere” il crimine. Ma contengono una insidia, regalano la prima fila, talvolta, a chi non c’entra niente e fanno credere urlando il bisogno di giustizia, che questa si possa toccare con mano.

Invece, non è così.

Perché il Paese è così bravo nelle commemorazioni e così “distratto” nelle inquisizioni? L’indignazione e le celebrazioni non bastano. Sono i giorni che precedono e seguono le ricorrenze, quelli che contano. E pazienza, se in essi gli attori di prima fila, quelli che scalpitano nelle ore del ricordo, tornano nell’ombra. Che è poi il luogo in cui investigatori pazienti e determinati abitano costantemente per inseguire la verità sfuggente.

Il terrorismo mafioso e le stragi degli anni Novanta non sono un capitolo chiuso, come si pensava fino a qualche anno fa, mettendo alla sbarra i “colpevoli” e condannando ben sette boss per l’eccidio di Via D’Amelio.

La Dia di Caltanissetta, ma anche altre Procure, hanno scoperto che la giustizia è stata raggirata, che i colpevoli sono “innocenti” e che il crimine è stato commesso da altri. A questo risultato è pervenuta grazie alle rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia e un’efficace attività d’indagine. Si è scoperto che il personaggio chiave del raggiro ai danni della giustizia, è Vincenzo Scarantino, che si accusò (ed accusò), di avere avuto un ruolo determinante nella strage di Via D’Amelio.

Il depistaggio fu così ben programmato, organizzato, eseguito da mettere nel sacco poliziotti, magistrati inquirenti e giudicanti. Com’è potuto accadere? Vincenzo Scarantino viene descritto come un uomo affatto avvertito, una mezza calzetta, ben lontana dal piglio duro e furbo dei boss.

Qualcosa, dunque, non ha funzionato. Che cosa?

C’è chi si pone una domanda, una sola domanda: come sia stato possibile realizzare il depistaggio e salvare esecutori materiali, e sopratutto i mandanti, della strage di Via D’Amelio (e non solo)?.

Ora, però, è il momento di andare oltre, facendo seguire a questo quesito principale, altre domande: chi ha preteso da Scarantino l’assunzione della grave colpa e come si è ottenuto che Scarantino tenesse la bocca chiusa per molti anni, in carcere, subendo le condanne in tre gradi di giudizio senza alcun cedimento? Quali strumenti sono stati usati per tenerlo in carcere così a lungo e senza fiatare? E’ stato fatto quanto era necessario per cercare conferme alle sue “verità”.

Mette i brividi il fatto che sette persone abbiano attraversato da colpevoli tre gradi di giudizio grazie a Scarantino. Non c’è solo il versante del depistaggio di cui rammaricarsi, ma anche quello della credibilità della giustizia.

Ragioniamo sugli eventi: mentre Scarantino eseguiva gli ordini dei suoi mandanti, i superstiti di Cosa nostra trattavano con uomini delle istituzioni per modificare il 41 bis. Stando alle rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia, trattavano con la “nuova politica” per trovare personaggi che fossero in grado di sostituire gli antichi protettori, “puniti” per il loro tradimento o ormai fuori dalle stanze dei bottoni. Se le trattative sul 41 bis e lo stragismo mafioso coinvolsero rappresentanti delle istituzioni e del vecchio establishment, la ricerca di una soluzione che garantisse il futuro di Cosa nostra, dovette necessariamente riguardare la nuova politica.

E’ immaginabile che si accontentassero della modifica del 41 bis e non agissero sui due fronti? I boss Messina, Brusca e il collaboratore Spatuzza – per citare i nomi più noti – descrivono un contesto più complicato: una strategia di più ampio respiro rispetto alle cosiddette trattative fra lo Stato ed i boss.

E’ provato oltre ogni dubbio che Cosa nostra volesse una svolta: non più mediatori, compari, contigui, ma una partecipazione diretta al governo del Paese, attraverso un partito costruito su basi e intendimenti comuni. Cercava di riciclare l’organizzazione e farla entrare nelle istituzioni e nei consigli di amministrazione, mano pubblica e privata.

Il partito nuovo è nato, ed a farlo nascere hanno contribuito anche “siciliani” di Milano di cui Gaspare Spatuzza fa nomi e cognomi, riferendo le notizie che gli provenivano da Giuseppe Graviano, il boss che la Dia di Caltanissetta indica come il regista di Via D’Amelio ed altre inchieste come l’organizzatore degli attentati terroristici.

I Graviano stanno dentro due filoni di indagine: la trattativa con lo Stato da una parte e la ricerca di nuovi padrini politici per assicurare il futuro a Cosa nostra. La strategia “sanzionatoria” e stragistica, infatti, non regala risultati apprezzabili all’organizzazione sugli assetti a venire. C’è, dunque, un incrocio su cui gli investigatori dovranno necessariamente lavorare. E’ la parte dell’indagine più difficile, ma è anche quella che può rispondere alle tante domande senza risposta che lo stragismo mafioso ha posto.

Questo versante così impalpabile coinvolge anche Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, e discusso collaboratore di giustizia. Ciancimino, come Spatuzza, ha raccontato che a tenere le file del rapporto con la politica - vecchia e nuova – sarebbe stato Marcello Dell’Utri in seguito alla perdita di ruolo del padre, messo “di lato” dai boss. Illazioni, allo stato, anche perché la credibilità di Massimo Ciancimino ha subito recentemente un tracollo così repentino che sembra avere fatto di tutto per “depistare” se stesso.

Il documento falsificato che l’ha condotto in carcere per calunnia e l’incredibile ritrovamento della dinamite nel suo giardino fanno pensare a gesti di autolesionismo piuttosto che ad incidenti di percorso di un uomo abbagliato dalla notorietà. La qualcosa, seppure confusamente, richiama alla memoria ancora una volta quella mezza calzetta così importante, Vincenzo Scarantino, ed i suoi depistaggi.

fonte: SiciliaInformazioni.com

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