Quale demone, quale malagrazia, quale furore dionisiaco spinge Raffaele Lombardo a cambiare governo ogni sei mesi? A sentir lui sembra che il perpetuo rimescolamento di carte sia dovuto al fatto che il Presidente della Regione, nonostante i ripetuti tentativi, non riesca mai a trovare la squadra idonea per dare finalmente una svolta al destino della Sicilia. Ricordate? Ci aveva provato con il primo governo, ma l’ha dovuto subito sfasciare perché lì dentro c’erano i terribili cuffariani, gentaccia il cui unico scopo era quello di remare contro lo spirito riformatore tanto caro all’Arcangelo di Grammichele. E così, cacciati dal tempio i mercanti dell’Udc, è nato il Lombardo bis. “Sarà un governo di legislatura”, annunciavano i cantori della stabilità. Invece, allo scadere dei sei mesi, il Governatore si è visto costretto a rottamare anche la seconda giunta. Aveva scoperto che nelle immacolate stanze di palazzo d’Orleans s’annidavano residue forze del male; e che per spianare la strada alle riforme sarebbe stato necessario seppellire definitivamente Belzebù e i suoi seguaci, incarnati in quell’occasione dagli assessori vicini a Renato Schifani e ad Angelino Alfano. Per raggiungere l’obiettivo, l’Arcangelo ha fatto il diavolo in quattro: ha spaccato ufficialmente il Pdl, ha sedotto alcuni bravi ragazzi del Pd e, alla fine, ecco il Lombardo ter.
Più che un nuovo governo, sembrava il sol dell’avvenire: dalla sacra alleanza tra il Governatore e Gianfranco Miccichè sarebbe nato non solo il nuovo mondo, quello delle riforme, ma anche un nuovo partito, intestato non a caso all’amato Sud e destinato a scardinare gli equilibri della politica italiana, dalla Padania fino alla valle del Simeto. Un sogno ambizioso. Nel terzo governo non c’erano più reprobi da fronteggiare né diavoli da cacciare all’inferno; e soprattutto non c’erano più gli Alfano e gli Schifani, i Castiglione e i Firrarello, ma solo il fraternissimo amico Miccichè, unico alleato politico ma in realtà testimone e complice di una verità bene occultata: cioè che dietro i più importanti assessori tecnici c’era la mano burattinaia di una fetta consistente del Pd. Eppure, nonostante il patto di ferro con il devoto Gianfranco, nonostante l’appoggio sottobanco di alcuni colonnelli cracoliciani, Lombardo ha voluto condannare a morte anche il suo terzo governo. Come mai? Chi ha remato, stavolta, contro le riforme: Miccichè oppure uno dei tecnici divenuto assessore in nome e per conto del Pd?
Prima o poi, il presidente della Regione dovrà dire chi ha tradito; e in omaggio alla trasparenza dovrà dirlo con nomi, cognomi e circostanze specifiche. Altrimenti autorizzerà chiunque a pensare che il valzer dei governi, più che da ragioni politiche sia dettato da un calcolo matematico. Ricordate che cosa ci insegnava il professore delle medie quando spiegava le frazioni? Bene. Nel primo governo, Lombardo doveva dividere potere e poltrone con tre alleati che erano l’Udc, il Pdl ribelle di Miccichè e il Pdl ufficiale di Alfano e Schifani. Se gli incarichi in palio erano cento, a lui e al suo Mpa ne toccavano venticinque. Fatto fuori Cuffaro, ha potuto dividere per tre. Sei mesi dopo, eliminati pure i “lealisti”, la spartizione gli è risultata molto più appetitosa: cinquanta a lui e cinquanta a Miccichè. Una pacchia. Ma gli arcangeli, si sa, non sono mai sazi. E così, quando ha scoperto – con le nomine nelle sovraintendenze – che il tutto si poteva dividere per uno, ha cominciato a uggiolare daccapo sulle riforme e sulla necessità di sostenerle con una nuova giunta, meglio se composta per intero da assessori tecnici. Perché i tecnici di rito lombardiano, si sa, sono nati per obbedire. Dicono di non servire alcun padrone ma quando il Presidente li chiama alla lavagna del sottogoverno scrivono puntualmente sotto dettatura. Si travestono da sceriffi intransigenti, ma poi bevono il calice della lottizzazione fino all’ultima goccia.
fonte : Livesicilia
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