Obitorio di Castelvetrano, 5 luglio 1950 (Pubbliphoto, Palermo)
Ricorre, il prossimo cinque luglio, il 60° anniversario della “morte” di Salvatore Giuliano. Molti si preparano alla commemorazione dell’evento anche se dovrebbero avere il pudore di tacere, visto che ad essere ricordato è un criminale incallito con quattrocento fascicoli e procedimenti penali aperti sul suo conto. Le accuse: stragi, insurrezione armata contro i poteri dello Stato, assalto contro i lavoratori in festa e le sedi della sinistra politica e sindacale, uccisione di carabinieri e civili, molti del suo stesso paese, Montelepre. Il bandito è trovato morto all’alba del 5 luglio 1950 nel cortile dell’avvocato De Maria, a Castelvetrano. Ma oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, forti dubbi nascono sulla “morte” di questo bandito politico che inaugura con Portella della Ginestra, la lunga catena dello stragismo italiano.
Obitorio di Castelvetrano, 5 luglio 1950
Di fronte a uno Stato che ha sempre fatto carte false, è doveroso dubitare persino di ciò che appare evidente. Specie se questa evidenza riguarda i personaggi che ne sono, a vario titolo, protagonisti. Come il “bandito” di Montelepre Salvatore Giuliano. Il primo attore italico sulla scena del terrorismo nostrano e anche il primo ad essere ufficialmente ammazzato, all’età di appena ventotto anni.
A certificarne la morte è il giornalista Tommaso Besozzi. Fa molta strada prima di arrivare come un militare in avanscoperta, sulla scena del combattimento. E, quando arriva, più che certezze raccoglie dubbi. Li descrive tutti in un articolo destinato a fare la storia del giornalismo italiano: “Un segreto nella fine di Giuliano. Di sicuro c’è solo che è morto”, uscito sul n. 29 de “L’Europeo” del 1950.
Si inaugura così la stagione del grande giornalismo di inchiesta, con gli organi di stampa che si spostano sui luoghi dei delitti e trasformano i reporter in combattenti per la verità. Esposti in prima linea, come in un vero e proprio conflitto bellico.
Sono i primi anni della Repubblica e quel cadavere che giace nel cortile De Maria, dove il bandito avrebbe trascorso l’ultima notte della sua vita, ne dichiara l’inaffidabilità e la spregiudicatezza. Il mistero sulle circostanze di un conflitto a fuoco mai avvenuto e la certezza di un omicidio annunciato e brutalmente eseguito. Come profetizzato qualche anno prima dal leader comunista siciliano Girolamo Li Causi.
Ma chi è veramente questo morto? E, soprattutto, chi sono i protagonisti di questa vicenda oscura?
Ad aiutarci a districare questo primo grande mistero del dopoguerra ci sono venuti in aiuto, negli ultimi dieci anni, migliaia di carte provenienti dagli archivi americani, inglesi e nostrani. Materiali che raccontano, ad esempio, la scoperta di un Servizio ultrasegreto – “l’Anello” o “Noto Servizio”– agli ordini diretti dell’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Come ci racconta Stefania Limiti nel volume “L’Anello della Repubblica” (Chiarelettere, 2009). I suoi obiettivi sono ben definiti: ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico con mezzi illegali, ma senza sovvertirlo. Questa organizzazione ultrasegreta non è stata una meteora: ha operato dal 1945 fino all’ inizio degli anni Ottanta.
Certo, se in quella torrida estate del 1950, Salvatore Giuliano – alla vigilia del processo di Viterbo, per gli eccidi siciliani della primavera 1947 – si fosse deciso a vuotare il sacco, sarebbe crollata l’Italia. A cominciare dalle sue nuove istituzioni repubblicane.
Questo è un thriller che inizia in un’altra estate, quella drammatica del ’43, quando un picciotto “dal carattere forte e determinato” – come scrivono i Servizi americani di stanza in Sicilia – inaugura la sua carriera terroristica nelle fila della rete nazifascista del Principe Valerio Pignatelli e delle Ss di Herbert Kappler. In breve, il “re di Montelepre” entrerà nei commandos della Decima Mas di Borghese inviati al Sud, con il nome di battaglia di “Giuliani”. Come egli stesso si firma di fronte a testimoni di sicura fede. Ad esempio, il giornalista Igor Man che lo intervista nella primavera del ’45 per la rivista “Crimen”. I Servizi militari alleati (Cic), al comando del colonnello americano Hill Dillon, lo definiscono “leader of a fascist band in Sicily”. Ma è nel dopoguerra che “Giuliani” si mette agli ordini dell’X-2 di Roma, il controspionaggio Usa guidato dal capitano James Angleton. L’obiettivo è uno solo: liberare l’isola dall’“infezione bolscevica”. Come Giuliano stesso scrive in diversi appelli a sua firma diffusi in quegli anni. Fino alle stragi siciliane del maggio-giugno 1947.
Una rara foto del lato sinistro della testa del cadavere
Sono anni in cui il Sis, il Servizio informazione e sicurezza, lo segnala a capo delle Sam (Squadre armate Mussolini) e dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria) di Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito fascista repubblicano della Rsi. In queste carte c’è anche lo “Scugnizzo di Palermo”, Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, che la polizia considera “un Giuliano e mezzo”. Nel giugno ‘47 un lungo rapporto del Sis ci dice che Giuliano è “a totale disposizione delle formazioni nere”. E non è forse casuale che in una foto pubblicata nel volume di Pasquale Chessa, “Guerra Civile” (Mondadori), un giovane milite della Decima Mas – ritratto assieme al comandante Junio Valerio Borghese e al tenente Mauro De Mauro, in Galleria a Milano, il 10 aprile 1945 – presenti una forte somiglianza con Salvatore Giuliano. Ovvero, il “tenente Giuliano” o “Giuliani” più volte segnalato dal colonnello Hill Dillon, in quelle stesse settimane.
Sono temi, questi, da noi ampiamente trattati nel volume “Lupara Nera” (Bompiani, 2009).
Non sono da meno le carte desecretate a Londra e a Washington sul capitano Antonio Perenze e sul colonnello Ugo Luca, entrambi dell’Arma. Del primo, gli americani scrivono che nell’agosto ‘46 lavora a contatto con l’X-2 di Roma e che, su mandato del capitano del Cic Philip J. Corso, si incontra con Kappler detenuto a Forte Boccea. I Servizi Usa ottengono da Kappler e da Karl Hass gli elenchi degli agenti nazifascisti attivi in Italia fino alla fine della guerra e che ora servono per combattere il “bolscevismo”. Da qui la centralità della figura di Perenze in tutto l’affaire Giuliano. Su Luca il materiale abbonda. Lo spionaggio americano ci rivela che è sempre stato “vicino” al regime fascista e a Mussolini in persona e che in tale veste compie delicate missioni in Turchia, Spagna e in Medio Oriente fin dall’inizio degli anni Trenta. Anche l’Fbi si occupa di Luca. Nel 1959 segnala che intrattiene rapporti a Napoli con il superboss mafioso Lucky Luciano.
Insomma, il “re di Montelepre” si mette a capo di un esercito clandestino anticomunista. Con i suoi squadroni della morte attacca contadini e militanti socialisti, comunisti e sindacali. Mantiene la parola data a suo tempo a ministri, terroristi neofascisti, agenti dei Servizi italiani e americani. Come il “giornalista” Mike Stern, che è solito incontrare “Turiddu” in piazza San Silvestro a Roma fin dal 1945. Ma Stern si vedrà con Giuliano anche l’8 maggio ’47, una settimana dopo l’eccidio di Portella della Ginestra. E’ l’inizio della fine del capobanda. Non serve più. L’Italia si avvia a diventare centrista e tale rimarrà per molto tempo.
Montelepre, agosto 1947 (foto Chiaramonte)
Perchè si arriva alla messa in scena di Castelvetrano, la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950? Perchè Perenze redige un rapporto giudiziario totalmente falso? Certo perchè protetto da Luca e dall’Unione patriottica anticomunista (Upa), composta unicamente da ufficiali dell’Arma. Questo organismo occulto, attivo dall’autunno ’46, ha un ruolo fondamentale nelle operazioni sotterranee contro la giovane democrazia italiana. Ce lo conferma, tra gli altri, l’inchiesta di Riccardo Longone pubblicata su “l’Unità”, organo ufficiale del Pci, all’inizio del ’47. Il giornalista ci svela l’esistenza delle manovre per un colpo di Stato e la dipendenza diretta dell’Upa dai Servizi di Angleton.
Sarebbe stato quindi prudente diffidare degli strani eventi di quella notte di luglio. Persino di quel cadavere che i Carabinieri dissero senza mezzi termini appartenere al famoso bandito di Montelepre.
Dopo le elezioni politiche del ’48, Giuliano si sente abbandonato dallo Stato col quale, da ex terrorista nazifascista, ha iniziato a trattare per trovare una via di fuga in Italia o all’Estero. Ma non succede nulla. Tutti fingono di non sentire. E a “Turiddu” saltano i nervi. Alza il tiro e il risultato è la strage di Bellolampo, il 19 agosto 1949, sullo stradale Palermo-Montelepre. Muoiono otto carabinieri.
E’ un chiaro messaggio per il colonnello Luca. Quando l’ispettore generale di Ps in Sicilia, Ciro Verdiani, accorre sul luogo dell’eccidio, con lui c’è anche il futuro capo del Comando forze repressione banditismo (Cfrb).
Altro personaggio equivoco, questo Verdiani. Secondo le carte del Sis, nell’estate ’46, quando ricopre l’incarico di questore di Roma, è in contatto con alcuni membri della banda Giuliano: Silvestro Cannamela, ex membro dei commandos della Decima Mas al Sud, e con il catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, referente della banda Giuliano nella capitale, a Firenze e ad Arezzo.
Luca, quindi, è in Sicilia prima ancora di essere investito dei suoi poteri. Forse sta ambientandosi prima di assumere l’incarico di capo del Cfrb, il 27 agosto 1949. Con Bellolampo, Giuliano lancia un messaggio preciso ai vertici occulti dell’Upa e, indirettamente, al ministro dell’Interno Mario Scelba. Non è casuale, visto che le carte inglesi desecretate nel 2005 e da noi pubblicate in “Lupara Nera”, ci raccontano che gli uomini di Scelba si incontrano segretamente a Roma con i capi del fascismo clandestino (Augusto Turati in testa) e con i vertici della Polizia e dei Servizi italiani, sotto l’ombrello protettivo del capitano Philip J. Corso dell’Intelligence Usa.
Giuliano, insomma, ricorre ancora una volta al terrorismo per trattare. Minaccia di vuotare il sacco. Ovvero verità inconfessabili come i legami tra Cosa nostra e lo Stato, il ruolo stragista dei Servizi di Angleton e Corso, la funzione degli ex uomini delle Brigate Nere e della Decima Mas al Sud, il ruolo occulto de l’”Anello” facente capo a De Gasperi e a Scelba.
La sostituzione di Verdiani con Luca è funzionale alla nuova linea del governo. Se Giuliano vuole trattare, trattiamo pure, sembrano dire i vertici dello Stato. Il momento è delicato. Si avvicina la data d’inizio del processo di Viterbo per le stragi del ’47 in Sicilia. Il bandito potrebbe cantare, preso alla gola. Salterebbe il banco. Ecco perchè Luca è l’uomo giusto al momento giusto. Con lui non ci sono più gli eserciti in mobilitazione permanente, i soldati che in massa circondano villaggi e paesi arrestando centinaia di persone. Ora invece entrano in azione gli uomini dei Servizi segreti italiani, sotto la copertura del Cfrb. Sono nuclei in borghese addestrati più all’intelligence che all’uso delle armi, secondo il modello sperimentato negli anni precedenti da Luca e Perenze. Soprattutto all’estero.
Da questo momento nulla è affidato più al caso. Il giornalista Jacopo Rizza intervista Giuliano il 17 novembre ‘49 in una masseria nei pressi di Salemi, per la rivista “Oggi”. Verdiani lo incontra un mese dopo a cena, portandosi dietro panettone e marsala. Il reportage esce in tre puntate tra il 22 dicembre ’49 e il 5 gennaio ’50. E’ uno scoop mondiale e le foto, scattate a decine da Italo D’Ambrosio e Ivo Meldolesi, fanno il giro del mondo in ventiquattro ore. Giuliano ora appare sorridente e tranquillo e si fa riprendere da una cinepresa in un contesto arcadico.
Ma perchè un terrorista sanguinario, ricercato da sette anni, decide esporsi in maniera così plateale? Qualcosa non quadra. Scrive il cognato di Giuliano, Pasquale ‘Pino’ Sciortino, considerato l’intellettuale della banda: “Un sosia di Giuliano, un giovane di Altofonte, eccezionalmente somigliante a Turiddu, aveva l’incarico di farsi vedere in giro, di mettersi in vista, di farsi notare. Il suo compito era quello di comportarsi in maniera tale da dare l’impressione alla gente di trovarsi alla presenza di Giuliano. Questo giovane, sosia di Turiddu, sparì da casa per sempre un giorno prima della ‘ammazzatina’ di Turiddu a Castelvetrano, e non se ne seppe più nulla”. E aggiunge: “Nelle quasi duecento foto scattate e nel film girato da D’Ambrosio e Meldolesi, Giuliano appariva tranquillo, sicuro di sè e leggermente ingrassato” (Cfr. Sandro Attanasio e Pasquale ‘Pino’ Sciortino, Storia di Salvatore Giuliano di Montelepre, Palermo, Edikronos, 1985, p. 209). I due autori notano, in ultimo, che l’aria spavalda dimostrata dall’uomo che appare nelle foto “non si confaceva con il carattere riservato del ragazzo di Montelepre”.
Ma non è solo il marito di Mariannina Giuliano, sorella di Turiddu, a mettere in dubbio molti eventi di quei mesi. A parlare, questa volta, è la signora Elisa Brai, proprietaria dell’agenzia fotografica Pubbliphoto di Palermo. La signora, figlia di un famoso fotografo siciliano, ci ha raccontato di avere incontrato più volte Sciortino tra il 1984 e il 1985, quando questi frequentava la sua agenzia per selezionare alcune foto da pubblicare nel volume sopra menzionato. Sciortino le rivela che a morire a Castelvetrano non è stato Turiddu ma un sosia, e che è proprio questo sosia ad essere stato sepolto nella tomba di famiglia a Montelepre.
Salemi, 17 novembre 1949.
Non è l’unica novità. La signora Brai ci ha svelato altri dettagli. Negli anni Novanta, quando preparava il libro “Il carabiniere e il bandito” (Mursia), l’ex maresciallo dei Cc Giovanni Lo Bianco, uno dei tre firmatari del Rapporto depistante sulla strage di Portella della Ginestra, raccontò alla signora Brai che Salvatore Giuliano, nei primi mesi del ‘50, viveva sotto falsa identità in casa di una aristocratica siciliana in via Marinuzzi a Palermo. Naturalmente sotto la protezione dell’Arma. Insomma, sia Giuliano sia il suo luogotenente Gaspare Pisciotta sono nelle mani dei Carabinieri. Così come Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, è il confidente numero uno del capo dell’ispettorato di Ps in Sicilia, Ettore Messana.
Per non parlare delle analisi sulle fotografie del cadavere di Castelvetrano compiute qualche anno fa dal prof. Alberto Bellocco (Università cattolica del Sacro Cuore di Milano), autore di oltre mille perizie legali in tutta Italia negli ultimi trent’anni. Secondo Bellocco, si rilevano differenze significative nelle immagini che ritraggono quel corpo senza vita. E’ un tema sul quale ritorneremo.
I punti oscuri, insomma, abbondano in questa vicenda. A sessant’anni dal fantomatico conflitto a fuoco di Castelvetrano del luglio ’50, basterebbe che la Magistratura ordinasse l’esame del Dna sul cadavere che risulta sepolto nella tomba della famiglia Giuliano a Montelepre, e su quello dei suoi parenti più stretti. Ecco perchè, il 5 maggio scorso, abbiamo scritto al Questore di Palermo chiedendo che le autorità competenti facciano le verifiche del caso. Lo dobbiamo a tutte le vittime delle stragi siciliane di quegli anni infami, che ancora oggi non hanno avuto giustizia alcuna dallo Stato.
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino
Fonte : blog del ricercatore storico Giuseppe Casarubbea
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