28 ottobre. Anniversario della marcia su Roma. A Montelepre, tra invisibili lampi diurni e tuoni lontani, sotto un cielo che promette temporale si scoperchia la tomba del bandito Salvatore Giuliano. Come nel film horror Frankenstein (1931) di James Whale, il morto appare finalmente nelle sue reali proporzioni, fisiche e morali, lanciando fulmini e boati. Un fantasma d’altri tempi. Il bandito terrorista nostrano, invece, era alto poco più di un metro e sessanta ed era autore di alcune centinaia di delitti: stragi di lavoratori, di carabinieri e di civili soprattutto. Il nipote è felice come una Pasqua. Ci sono le televisioni e i giornali di mezzo mondo e lui, proprietario di un albergo e ristorante intitolato alla memoria dello zio (fratello della madre Mariannina), il Giuliano’ s castle, che di questa memoria campa, nonostante si tratti di un criminale, ne approfitta per esibirsi di fronte alle telecamere. Come in un circo mediatico. E le telecamere compiaciute rivolgono a lui tutta l’attenzione. Domani ci sarà un collegamento diretto tra lui che parla (tempo permettendo) dalla terrazza del suo castello e la trasmissione di Magalli “I fatti Vostri” che, naturalmente, in regime berlusconiano ha preferito invitare questo residuato ambulante dell’anticomunismo, escludendo il doveroso contraddittorio con chi la pensa, dati alla mano, diversamente da lui.
Figlio di quel Pasquale ‘Pino’ Sciortino che scappò in America dopo avere organizzato gli assalti alle Camere del Lavoro della provincia di Palermo e partecipato alla strage di Portella della Ginestra, l’erede di tanto elevati eroi come lo zio e il padre, alza ora il braccio in alto indicando con tre dita aperte la Trinacria, il simbolo che piaceva ai suoi familiari defunti, e soprattutto al carnefice al servizio di Kappler. Sì, perchè Giuliano fu anche uomo della Decima Mas e capo di un movimento neofascista nel Mezzogiorno d’Italia che aveva le sue organizzazioni paramilitari nelle Sam (Squadre d’Azione Mussolini), nei Far (Fasci di azione rivoluzionaria) e nell’Eca (Esercito clandestino anticomunista). A Palermo, in via dell’Orologio c’era una sede del Fronte Antibolscevico e Frank Mannino, alias “Ciccio Lampo”, al processo di Viterbo si lasciò sfuggire che era frequentato dal suo capo, il bandito monteleprino appunto. Dopo le stragi del 22 giugno 1947, in cui morirono due sindacalisti ed altri dieci rimasero feriti, la polizia vi fece irruzione e vi trovò gli stessi manifestini lanciati durante gli assalti a Carini e a Partinico, e qualche arma da fuoco che qualcuno, forse, andandosene a casa dopo una riunione, aveva dimenticato.
“La tomba” è un oggetto apparentemente muto ma che potrebbe cominciare a parlare a lungo; potrebbe da sola riscrivere sessant’anni di storia. Non solo siciliana, ma anche italiana e internazionale. A meno che non ci siano sorprese, bisogna aspettare gli esami del Dna per mettere la parola fine a una vicenda aperta proprio il 5 luglio 1950, quando a Castelvetrano fu trovato un corpo sul quale il famoso giornalista Tommaso Besozzi, scrisse una frase passata alla leggenda: “Di sicuro c’è solo che è morto”.
Da quel momento, come sulle ali del vento, cominciò a circolare la voce che di sicuro non c’era proprio nulla, visto che avevamo a che fare con un criminale organico allo Stato che aveva stipulato – come ebbe a dire Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo – un patto di ferro con Cosa Nostra e con i banditi. Il luogotenente di Giuliano la chiamò “santissima trinità” e disse tutto, con la sua terza elementare.
Giuseppe Casarrubea
fonte: http://casarrubea.wordpress.com/
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